venerdì 18 dicembre 2009

Soulsavers

Il pianoforte malandato che traccia la strada di ingresso al nuovo disco dei Soulsavers mette subito le cose in chiaro: questa è roba seria, amico, pensi di farcela? Altrimenti è meglio che giri il cavallo e torni da dove sei venuto.
Musica di frontiera, di praterie avvolte nella nebbia, di notti buie come il fondo di un barile di whiskey. Luoghi in cui è facile perdersi, inevitabile.
Puoi trovare tutto nelle tredici tracce di Broken: blues elettrico, soul e folk, country epico, rock e gospel. Chitarre che stridono e arpeggiano, pianoforti e violini, armoniche che ululano come coyote affamati, assoli infuocati, tempi dilatati e sospesi.
Una trama sonora perfetta per le grandi voci che i Salvatori di anime hanno chiamato a raccolta, guidate dal timbro sciamanico di Mark Lanegan: le gole ruvide e profonde di Richard Hawley e Jason Pierce, l’immortale Mike Patton, l’eterea Red Ghost.
I Soulsavers ci abbandonano nel deserto e poi ci indicano il sentiero per tornare a casa, spengono le luci e accendono le candele, prima ci condannano e poi vengono a salvarci.

“When you have no one, no one can hurt you”


martedì 15 dicembre 2009

Ci vorrebbe il mare

Si, lo ammetto, ho avuto un disco di Marco Masini. E non sto parlando di una cassetta, magari registrata, ma del 33 giri originale, con in copertina il faccione triste e stempiato dell'autore.
Inutile nascondersi, ognuno di noi ha scheletri nell'armadio e nella discoteca, macchie indelebili e disonorevoli sul curriculum musicale che cerca di celare e di dimenticare.
Io ho Marco Masini. E non solo lui. Voglio essere sincero, sto facendo “musical outing” e non intendo tirarmi indietro: ho anche una raccolta dei Backstreet Boys e una di Gloria Estefan, due dischi di Ramazzotti e uno di Mariah Carey, la compilation del Festivalbar 2001 e alcune cose dell’ultimo, inqualificabile, Vasco Rossi. Non li ascolto, non ne vado fiero, eppure restano lì, con le loro storie e i loro retroscena più o meno divertenti.
Ora, per difendermi e cercare di riconquistare un minimo di dignità e di credibilità, potrei fare un lungo elenco dei miei quasi ottocento dischi, che lascerebbe tutti senza fiato per la quantità e la qualità di titoli e artisti che hanno fatto la storia del rock, ma non lo farò. Potrei parlare delle prime edizioni in vinile di Springsteen, ma non lo farò. Potrei raccontare di quegli album introvabili, comprati in America, ma non lo farò. E adesso smetterò anche il giochino di farlo lo stesso facendo finta di non farlo.
Ho avuto un disco di Masini, il punto è questo. L’ho comprato in un pomeriggio di fine autunno del 1991 e credo di non averlo ascoltato più di due volte. D'altronde era inascoltabile, canzoni di una tristezza così esasperata da sembrare posticcia, forzata. Qualche esempio: “ci vorrebbe il mare per andarci a fondo”; “e ho portato come un lutto il tuo sangue nelle vene”; “ogni giorno muori e io muoio con te”. Cazzo, ma dai! Almeno nei pezzi in inglese non si capiva niente. Insomma: lo stesso anno uscivano, tra gli altri, Ten, Nevermind, il Black Album dei Metallica e i due Use your illusion dei Guns. Il mio cuore e le mie orecchie erano sintonizzati su quelle frequenze, eppure le mie esigue risorse finanziarie finivano nelle casse di un depresso cantante italiano. In verità, perché una spiegazione esiste, l’acquisto del disco rientrava in un ampio e strutturato progetto di conquista sentimentale che prevedeva e richiedeva, da parte mia, sensibilità, romanticismo e una buona dose di disperazione. Un mix che Masini era in grado di dare senza particolare impegno e senza il bisogno di lunghe e complicate spiegazioni della lontana scena grunge di Seattle. Con Masini era tutto più semplice. Molto più semplice.
Poco tempo dopo credo di averlo regalato.
O forse me ne sono solo liberato.
Non ne sono sicuro, controllerò, ma penso proprio di non averlo più e sarà strano, però, mi dispiace.

lunedì 7 dicembre 2009

Zone d'ombra

Ho ritrovato una lettera, ricevuta qualche anno fa, sotterrata da cumuli di vecchi scritti, carta e inchiostro, macerie di ambizioni letterarie.
Cercavo di mettere ordine in casa, che poi è un po' come mettere ordine nella propria vita, passando in rassegna file di libri e di dischi, incarti di documenti, tessere, vecchi taccuini traboccanti di parole. Mi sono seduto e il divano mi ha inghiottito, schiacciato dal peso di una busta colma di ricordi di piombo, scomodi, gravi, ingombranti. Questa lettera è molto dolorosa per me, riapre una vecchia ferita che ormai non sanguina più ma che punge e lacera sotto pelle. Sofferenza vera, reale, tangibile.
La scrive un fantasma perso in un passato che credevo più lontano. Racconta una storia di adolescenza, di amicizia, della sottile linea che divide la luce dal buio, di precipizi, di malattia. Una della tante, che senti spesso dalle nostre parti, in periferia. Storie ai margini, che non finiscono bene, di qualcuno che si perde e sparisce, nelle zone d’ombra della vita e di se stesso.
Racconti di strada, quante volte li abbiamo sentiti?
Quanti ne dovremmo ancora sentire?
Mi chiedo spesso per quale motivo questa storia abbia lasciato un solco tanto profondo e faccia ancora così male. Abbiamo visto un amico smarrirsi, lentamente ed inesorabilmente, senza potere fare nulla, incapaci di reagire, di opporci ad un vento che soffiava crudele verso il mare aperto. Credo che nel momento in cui mi sono reso conto di non poterci fare nulla, in quel preciso momento e solo allora, ho smesso di essere un bambino e ho capito che nella vita le cose succedono davvero, che nessuno è invincibile, che tutti possono cadere.
È stato come un secondo vagito, un pianto innocente e doloroso, un grido disarmato che fa male ancora adesso, seduto qui, con una lettera in mano.

mercoledì 2 dicembre 2009

Italia '90

Nell’estate del 1990 avevo dodici anni e mi trovavo al mare, a Pinarella di Cervia, sulla riviera romagnola, con mia nonna Lia e mio cugino Paolo. Alloggiavamo in un appartamento al piano terra di Villa Rosina, antenata dei moderni residence, gestita, appunto, da Rosina e da suo marito Renzo.

Era bello stare a Pinarella. Quando veniva sera, dopo cena, uscivamo a fare un giro e mia nonna ci comprava il gelato; io e Paolo prendevamo coni giganteschi, più grossi di noi, con gusti impossibili, da guerra batteriologica, tipo Puffo o Pantera Rosa. Sono ancora convinto che l’ingrediente base di quei gusti fosse spremuta di evidenziatore, perché al buio si illuminavano e spesso, dopo averli mangiati, la lingua restava blu o rosa per qualche ora. Dopo il gelato si andava in sala giochi, il nostro regno: c’erano i tappeti elastici, i videogiochi, una pista per le macchine a gettoni e quel tavolo liscio con un dischetto da colpire da una parte all’altra, di cui non ho mai capito il nome.

La sera era divertente, è vero, ma il giorno era ineguagliabile.

C’erano il mare, i bagni interminabili (solo due ore dopo mangiato) fino a che le dita non diventavano a righine, poi la spiaggia e la pineta, la merenda con le piadine, i giochini nei bazar sul lungomare. Noi stavamo al Bagno Paola, con le sdraio e gli ombrelloni a righe gialle e verdi. Si giocava tutto il giorno: a calcio, a ping pong, con il canestro, i racchettoni e le biglie. Ore intere a preparare la pista e poi quando eri pronto a cominciare era ora di andare a casa. Le estati al Bagno Paola passavano così, ma quell’estate, quella del 1990 fu diversa, perché tutta l’Italia era concentrata su una cosa sola: dopo un inverno ed una primavera di febbrili preparativi e costruzioni, dopo pubblicità, trasmissioni e grandi proclami, finalmente era arrivato il momento dei mondiali di calcio, i nostri...il momento di ”Italia ’90”.

Un orrore di mascotte, un aborto in tricolore, con la testa a pallone ed il corpo ingessato di bandierine, che rispondeva al vergognoso nome di Ciao, era ovunque ed anche se non poteva guardare (perché non aveva gli occhi!!!), ci sentivamo tutti osservati e ansiosi.

Era l’estate delle “notti magiche inseguendo un gol” ed era emozionante.

Quella era la nazionale di Baggio e Vialli, di Baresi e di Vicini, ma soprattutto di Totò Schillaci, un mediocre giocatore, di media statura e medio rendimento, che partì da riserva e finì capocannoniere del Mondiale. Assistemmo tutti all’illuminazione di un uomo, che nel mezzo del cammin di sua vita si ritrovò per un campo di calcio ed iniziò a fare gol ed a farci credere nei miracoli. Qualche esperto giornalista sportivo saprebbe ben raccontare come, in quel mese di manifestazione, “tutta la nazione si sentì finalmente unita, grazie ad un piccolo siciliano, nuovo Garibaldi, che portò la speranza in un paese stanco e sempre più diviso”. Ma io non sono esperto, non sono giornalista sportivo e sinceramente non ricordo molta poesia negli occhi lisergici e invasati di Schillaci.

La nostra era una bella nazionale, ma pensate alle altre: c’era l’Argentina di Maradona; il Brasile di Dunga; la Germania di Matthaus, l’Inghilterra di Gascoigne. I favoriti, ovviamente, eravamo noi: avevamo dalla nostra il fantomatico “fattore campo”. Ma l’Italia è l’Italia e qualche mente illuminata pensò bene di far giocare la semifinale con l’Argentina al San Paolo di Napoli, l’anno in cui, grazie a Maradona avevano vinto il campionato e, per magia, fu come giocare a Buenos Aires. Baggio non partì titolare, Schillaci, dopo un gol dei suoi ad inizio partita, sparì e quel genio di Zenga (il grande Zenga!!!), troppo impegnato a mettersi il gel nei capelli, andava a farfalle, mentre quel tamarro ossigenato di Caniggia ci spediva ai calci di rigore, gettando un paese intero nella depressione totale. Tensione, paura, emozioni a mille, ma alla fine Serena e Donadoni sbagliarono il rigore e non ci restò che la finalina per il terzo posto,

Conservo, comunque, bellissimi ricordi di quell’estate, sotto il sole della Romagna, tra le bandiere delle squadre partecipanti, la Gazzetta dello Sport e le corse al bar per vedere le partite. Le mogli stavano sotto l’ombrellone, a preparare panini e a leggere Novella 2000, disposte solo a guardare le partite dell’Italia, ma i mariti, stoici, si piazzavano sulle sedioline di tela del bar e si sparavano tutto il palinsesto Rai, riscaldamenti e intervalli compresi. Io stavo lì, seduto in un angolo, con il mio ghiacciolo in mano e osservavo lo schermo, ascoltando le telecronache di Pizzul e le bestemmie in dialetto, da pre-globalizzazione, dei signori in sala.

Quando giocava l’Italia, era il delirio. Nonni con i nipoti, lavoratori che non facevano in tempo ad arrivare a casa e si fermavano a vedere la partita al primo televisore a disposizione, i ragazzi della zona e soprattutto le fidanzate in minigonna, famiglie di tedeschi, di inglesi: il popolo del Mondiale era uno spettacolo meraviglioso, per un ragazzino di dodici anni in vacanza al mare.

Dopo la finale, per la cronaca una delle più brutte della storia, di colpo, l’Italia tornò alla normalità.

Anche le nostre vacanze rientrarono sui soliti binari, niente più serate in piazza, a mezzogiorno Il pranzo è servito e a cena Il tenente Colombo, mentre i signori del bar riprendevano le loro partite a bocce e le passeggiate nella pineta. Restarono le bandiere e gli striscioni, ma è normale in un paese in cui l’albero di Natale si toglie a maggio, no? Del resto, per anni, portammo ancora addosso i segni di Italia ’90...sulle magliette, sui cappellini che i muratori usavano per lavorare, sugli adesivi attaccati al retro delle macchine, sulle insegne dei bar e sui palloni comprati quell’estate.

Ciao, quell’essere informe, con il corpo patriottico e la testa di cuoio a rombi, stava lì, immobile, pronto a ricordarci che non avevamo vinto, è vero, ma che ci eravamo divertiti e che era stato bello, nonostante tutto.

Ognuno di noi ha tenuto qualcosa di quell’estate, un ricordo, un’emozione, la rabbia, la delusione, la gioia, colori e suoni. Io, oltre a tutto questo, possiedo ancora un piccolo cimelio: un pupazzetto di Baggio, di plastica, con il corpo piccolo e la testa enorme, che si vinceva con la benzina. Non sta più in piedi, è scolorito e ha la faccia grattata, ma è ancora lì, in una scatola e ci resterà ancora per molto.

Perché chi lo butta? Quello è Roby Baggio, mica Caniggia.