mercoledì 2 dicembre 2009

Italia '90

Nell’estate del 1990 avevo dodici anni e mi trovavo al mare, a Pinarella di Cervia, sulla riviera romagnola, con mia nonna Lia e mio cugino Paolo. Alloggiavamo in un appartamento al piano terra di Villa Rosina, antenata dei moderni residence, gestita, appunto, da Rosina e da suo marito Renzo.

Era bello stare a Pinarella. Quando veniva sera, dopo cena, uscivamo a fare un giro e mia nonna ci comprava il gelato; io e Paolo prendevamo coni giganteschi, più grossi di noi, con gusti impossibili, da guerra batteriologica, tipo Puffo o Pantera Rosa. Sono ancora convinto che l’ingrediente base di quei gusti fosse spremuta di evidenziatore, perché al buio si illuminavano e spesso, dopo averli mangiati, la lingua restava blu o rosa per qualche ora. Dopo il gelato si andava in sala giochi, il nostro regno: c’erano i tappeti elastici, i videogiochi, una pista per le macchine a gettoni e quel tavolo liscio con un dischetto da colpire da una parte all’altra, di cui non ho mai capito il nome.

La sera era divertente, è vero, ma il giorno era ineguagliabile.

C’erano il mare, i bagni interminabili (solo due ore dopo mangiato) fino a che le dita non diventavano a righine, poi la spiaggia e la pineta, la merenda con le piadine, i giochini nei bazar sul lungomare. Noi stavamo al Bagno Paola, con le sdraio e gli ombrelloni a righe gialle e verdi. Si giocava tutto il giorno: a calcio, a ping pong, con il canestro, i racchettoni e le biglie. Ore intere a preparare la pista e poi quando eri pronto a cominciare era ora di andare a casa. Le estati al Bagno Paola passavano così, ma quell’estate, quella del 1990 fu diversa, perché tutta l’Italia era concentrata su una cosa sola: dopo un inverno ed una primavera di febbrili preparativi e costruzioni, dopo pubblicità, trasmissioni e grandi proclami, finalmente era arrivato il momento dei mondiali di calcio, i nostri...il momento di ”Italia ’90”.

Un orrore di mascotte, un aborto in tricolore, con la testa a pallone ed il corpo ingessato di bandierine, che rispondeva al vergognoso nome di Ciao, era ovunque ed anche se non poteva guardare (perché non aveva gli occhi!!!), ci sentivamo tutti osservati e ansiosi.

Era l’estate delle “notti magiche inseguendo un gol” ed era emozionante.

Quella era la nazionale di Baggio e Vialli, di Baresi e di Vicini, ma soprattutto di Totò Schillaci, un mediocre giocatore, di media statura e medio rendimento, che partì da riserva e finì capocannoniere del Mondiale. Assistemmo tutti all’illuminazione di un uomo, che nel mezzo del cammin di sua vita si ritrovò per un campo di calcio ed iniziò a fare gol ed a farci credere nei miracoli. Qualche esperto giornalista sportivo saprebbe ben raccontare come, in quel mese di manifestazione, “tutta la nazione si sentì finalmente unita, grazie ad un piccolo siciliano, nuovo Garibaldi, che portò la speranza in un paese stanco e sempre più diviso”. Ma io non sono esperto, non sono giornalista sportivo e sinceramente non ricordo molta poesia negli occhi lisergici e invasati di Schillaci.

La nostra era una bella nazionale, ma pensate alle altre: c’era l’Argentina di Maradona; il Brasile di Dunga; la Germania di Matthaus, l’Inghilterra di Gascoigne. I favoriti, ovviamente, eravamo noi: avevamo dalla nostra il fantomatico “fattore campo”. Ma l’Italia è l’Italia e qualche mente illuminata pensò bene di far giocare la semifinale con l’Argentina al San Paolo di Napoli, l’anno in cui, grazie a Maradona avevano vinto il campionato e, per magia, fu come giocare a Buenos Aires. Baggio non partì titolare, Schillaci, dopo un gol dei suoi ad inizio partita, sparì e quel genio di Zenga (il grande Zenga!!!), troppo impegnato a mettersi il gel nei capelli, andava a farfalle, mentre quel tamarro ossigenato di Caniggia ci spediva ai calci di rigore, gettando un paese intero nella depressione totale. Tensione, paura, emozioni a mille, ma alla fine Serena e Donadoni sbagliarono il rigore e non ci restò che la finalina per il terzo posto,

Conservo, comunque, bellissimi ricordi di quell’estate, sotto il sole della Romagna, tra le bandiere delle squadre partecipanti, la Gazzetta dello Sport e le corse al bar per vedere le partite. Le mogli stavano sotto l’ombrellone, a preparare panini e a leggere Novella 2000, disposte solo a guardare le partite dell’Italia, ma i mariti, stoici, si piazzavano sulle sedioline di tela del bar e si sparavano tutto il palinsesto Rai, riscaldamenti e intervalli compresi. Io stavo lì, seduto in un angolo, con il mio ghiacciolo in mano e osservavo lo schermo, ascoltando le telecronache di Pizzul e le bestemmie in dialetto, da pre-globalizzazione, dei signori in sala.

Quando giocava l’Italia, era il delirio. Nonni con i nipoti, lavoratori che non facevano in tempo ad arrivare a casa e si fermavano a vedere la partita al primo televisore a disposizione, i ragazzi della zona e soprattutto le fidanzate in minigonna, famiglie di tedeschi, di inglesi: il popolo del Mondiale era uno spettacolo meraviglioso, per un ragazzino di dodici anni in vacanza al mare.

Dopo la finale, per la cronaca una delle più brutte della storia, di colpo, l’Italia tornò alla normalità.

Anche le nostre vacanze rientrarono sui soliti binari, niente più serate in piazza, a mezzogiorno Il pranzo è servito e a cena Il tenente Colombo, mentre i signori del bar riprendevano le loro partite a bocce e le passeggiate nella pineta. Restarono le bandiere e gli striscioni, ma è normale in un paese in cui l’albero di Natale si toglie a maggio, no? Del resto, per anni, portammo ancora addosso i segni di Italia ’90...sulle magliette, sui cappellini che i muratori usavano per lavorare, sugli adesivi attaccati al retro delle macchine, sulle insegne dei bar e sui palloni comprati quell’estate.

Ciao, quell’essere informe, con il corpo patriottico e la testa di cuoio a rombi, stava lì, immobile, pronto a ricordarci che non avevamo vinto, è vero, ma che ci eravamo divertiti e che era stato bello, nonostante tutto.

Ognuno di noi ha tenuto qualcosa di quell’estate, un ricordo, un’emozione, la rabbia, la delusione, la gioia, colori e suoni. Io, oltre a tutto questo, possiedo ancora un piccolo cimelio: un pupazzetto di Baggio, di plastica, con il corpo piccolo e la testa enorme, che si vinceva con la benzina. Non sta più in piedi, è scolorito e ha la faccia grattata, ma è ancora lì, in una scatola e ci resterà ancora per molto.

Perché chi lo butta? Quello è Roby Baggio, mica Caniggia.

Nessun commento:

Posta un commento