Me lo aspettavo, lo temevo, era nell’aria da tempo. Eppure,
in fondo, non ero davvero preparato. Sarà stato per quella bella giornata di
sole o perché la vita non mi aveva ancora abituato ad attendermi il peggio, ma ero
uscito di casa con una grande carica di ottimismo, riponevo grandi speranze nel
futuro. Come piano B, in ogni caso, speravo di cavarmela, ancora una volta.
Invece, nonostante tutti i miei sforzi di trovare segnali
positivi ovunque, dalle forme delle nuvole alla frequenza dei semafori verdi, malgrado
le preghiere rivolte ad ogni divinità dell’Olimpo e dell’Empireo, il dramma
tanto paventato, infine, si consumò.
Capii che ero stato bocciato ancora prima che si aprissero
le porte del pullman. Percorsi il tratto di cortile tra la fermata e la parete
su cui erano appesi i risultati sotto lo sguardo di decine di ragazzi, una
sorta di passerella della compassione e del sollievo. Come un cowboy solitario
che attraversa il paese, verso il suo destino, mentre gli abitanti lo osservano
dalle finestre, dalle verande, i bambini dai tetti, gli ubriachi dalla porta
del saloon, io tagliai in due il cortile della scuola, a testa bassa. Ovunque,
intorno a me, occhi che parlavano chiaro, inesorabili. Labbra contratte.
Mascelle serrate. Maschere di contrizione. Erano tutti tristi, molto tristi,
per me.
Ma per favore! Falsi. Giuda. A parte gli amici, quelli che
lo sono ancora oggi, erano tutti dei maledetti traditori. Per un anno complici
e per cinque minuti amareggiati. Loro parlavano e io vedevo i sottotitoli. “Mi
dispiace”, dicevano. Io leggevo: “Cazzi tuoi Matte”. “Sono stati davvero
stronzi”, sentenziavano. “Meglio a te che a me”, decifravo io.
Infami, è facile fare gli indignati con le disgrazie degli
altri.
Decisi, come il cowboy, di andare fino in fondo, tuttavia,
per guardare in faccia il destino, che nel mio caso erano i cartelloni con
risultati.
Due materie con il quattro e due con il cinque. Non ammesso!
Ma cosa vuol dire “non ammesso”? Che razza di ipocrisia. Non
ammesso alla classe successiva? E chi se ne fregava dell’anno successivo, era
per quello appena finito che mi giudicavano. Non mi ricordavo che il professore
di matematica mi minacciasse dicendo “Se continui così non ti ammetto alla
classe terza”. “Ti boccio”, mi diceva.
Perché non scrivevano bocciato. Era quella la realtà.
Bocciato.
Certo, per quanto importante, questa battaglia lessicale non
era al centro dei miei pensieri mentre tornavo verso casa. C’erano problemi ben
più tangibili che gravavano sul mio futuro: mio padre e la sua reazione alla
notizia. Bruciavo a fuoco lento. E nel mondo pre-telefonia mobile le attese
potevano davvero essere logoranti e micidiali.
Inutile dire che non la prese bene. Per quanto anche lui non
si aspettasse grandi risultati, non diede la sensazione di essersi preparato a
gestire con calma la situazione. O forse decise deliberatamente di incazzarsi
come un pazzo. Come saperlo?
In ogni caso, quelli immediatamente successivi, furono
giorni di inferno, scanditi dall’attesa di sapere quale sarebbe stato il mio destino.
Mio padre era silenzioso, tramava qualcosa. Sapeva che poteva impedirmi di
uscire, per punizione, ma sapeva anche che invece che stare a fare un cazzo ai
giardini, avrei fatto un cazzo a casa. L’idea lo tormentava, così escogitò un
piano. Doveva avermi sotto controllo e farmi capire, allo stesso tempo, come
funziona il mondo, come funziona per le persone che si danno da fare, che non
scappano di fronte alle responsabilità, che si guadagnano da vivere. Per questo
una sera di giugno, seduti in cucina per la cena, mi comunicò la sua decisione:
sarei andato a lavorare con lui, ogni giorno, per tutta l’estate, fino alle
vacanze. Le sue, ovviamente. Le mie non erano contemplate.
Mio padre è ferroviere, anzi lo era. Adesso è in pensione,
ma credo che per loro sia come per i militari, un’appartenenza eterna. Del
tipo: ferroviere un giorno, ferroviere tutta la vita.
Ha cominciato molto giovane: era nel personale viaggiante in
Val di Susa, che vuol dire da Torino a Modane, andata e ritorno, tutti i giorni
e tutte le notti. Soprattutto le notti. Poi sono nato io e lui si è iscritto
all’università. Studiava nel tempo libero e tra una stazione e l’altra.
Anni dopo, con la laurea in tasca, partecipò a un concorso
interno e passò ad un lavoro d’ufficio, nella sede di Porta Nuova a Torino,
proprio sopra l’atrio della stazione.
Sono sempre stato orgoglioso del lavoro di mio padre, così
poetico e così semplice. Quando ero bambino mi piaceva rispondere alla domanda
“che lavoro fa tuo papà”. Gonfiavo il petto e rispondevo rapido e determinato:
il fer-ro-vie-re. Poesia e concretezza, storia e progresso. Tutto in una
semplice parola.
Sempre ammesso che quando avrà l’età giusta per rispondere
ad una domanda simile io abbia ancora uno straccio di occupazione, mia figlia
ci metterà almeno venti minuti a spiegare come suo padre si guadagna da vivere.
Il tempo complica le cose.
Così, ogni mattina mi svegliavo presto e partivo con lui. In
quel periodo si occupava di gestire i magazzini delle stazioni piemontesi.
Certi giorni eravamo in ufficio, a Torino, ma per la maggior parte del tempo
viaggiavamo lungo le arterie della rete ferroviaria regionale. Il paesaggio
scorreva veloce oltre il finestrino. Bruciato dal sole estivo. Caldo.
Poi lui spariva, in lunghe riunioni e sopralluoghi. Io
restavo fuori, da solo. E mi perdevo. Camminavo lungo i binari morti, tra
cataste di rotaie arrugginite e traverse ammucchiate. Saltavo su montagne di
chiavarde, giunti di dilatazione, bulloni e piastre. Sedevo a fumare nei carri
merci abbandonati. Mi arrampicavo sui tetti dei vagoni, lungo gli scambi. Mi
sdraiavo a guardare il cielo.
Ho imparato molto in quelle lunghe giornate, i treni sono
maestri, insegnanti silenziosi.
Ho imparato che i treni attraversano il mondo come occasioni
sferraglianti, fendono l’aria di aspettative e speranze, seguono percorsi,
tracciano cammini come le vite di ognuno di noi. Si incrociano, si perdono e
poi si ritrovano.
Ho imparato che sono più quelli che partono, di quelli che
arrivano. E che la maggior parte li guardiamo sfrecciare senza capire dove
vadano e come fare a salirci.
Inutile dire che mio padre considerasse quei giorni come una
punizione esemplare con la quale rimettermi in riga. E si potrebbe pensare che
avesse ragione, perché obbligare un ragazzino a lunghe giornate solitarie a
girovagare solitario nella desolazione delle stazioni di provincia sembrerebbe
una dura imposizione.
Non per me, però. Perché quello che mio padre non sapeva era
che se avevo buttato al vento un anno di scuola non era perché non passassi il
tempo necessario seduto di fronte ai libri. Lo facevo, ma non erano i testi
giusti. Nessun manuale di fisica o matematica. Nessuna antologia di classici
latini. Leggevo Kerouac, Salinger, Hemingway, London. Ascoltavo Springsteen,
tutto il giorno. Mi nutrivo di sogni di frontiera e viaggi lungo strade
polverose.
Per questo non smetterò mai di ringraziare mio padre per
quella punizione e ricordo con nostalgia la fatica con cui celavo il mio
sorriso felice, mentre tornavamo a casa. Ne andava del mio castigo e della
possibilità di avere un altro giorno a disposizione, un altro giorno per respirare
avventura e per viaggiare sui treni della fantasia.
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