mercoledì 31 agosto 2011

Benvenuto nella giungla

La lunga estate del 1992 è appena cominciata. La scuola è finita. Ho superato l’esame di terza media, sono stato bravo, credo. Mi lascio alle spalle la vecchia scuola, il quartiere, i compagni di sempre, le corse per occupare il campo di calcio nell’intervallo, il buco nella recinzione per entrare di nascosto la domenica pomeriggio, le duemila lire di pizza bianca all’uscita, i pensieri leggeri, le incredibili avventure di un pomeriggio di pioggia. Un sacco di cose. Mi mancherà tutto questo, quanto mi mancherà? All’orizzonte il profilo sfocato delle scuole superiori, incerto e carico di presagi, affascinante e intrigante. Grandi cambiamenti sono in atto, nella mia giovane vita, gli implacabili ingranaggi del tempo si sono messi in moto e da settembre nulla sarà più come prima, mai più.
In questo momento però, in questa tiepida mattina del 27 giugno, nessun pensiero mi sfiora la mente, nessuna domanda, nessuno spazio al futuro prossimo, nessun dubbio, nessuna incertezza. La mia anima è sgombra, limpida e tersa, sintonizzata sulle giuste frequenze, alimentata dall’adrenalina, dall’entusiasmo, dalla frenesia dell’attesa.
Guarda bene, puoi vedermi, appoggiato alla ringhiera del balcone, nel primo sole del mattino, a godermi il profumo gentile di una giornata che aspetto da mesi. Eccomi qui, guardami, i jeans strappati al ginocchio, la stessa faccia da schiaffi, i capelli da rocker in cantiere, più corti davanti e lunghi sul collo, la bandana legata al polso, gli occhi ancora bianchi, i sogni ancora intatti, le gambe storte, un’ombra di barba, il cuore impavido.
Garda bene, riesci a vedermi? Sono felice.
Tengo tra le mani il mio biglietto, lo leggo ancora una volta: “Use Your Illusion World Tour 1992…GUNS N’ ROSES”. La carta è spessa, ruvida sulla dita. L’ho comprato con i soldi della busta di Natale, un venerdì pomeriggio di aprile. Pioveva. Il nome del gruppo è come se fosse uno specchio. Riflette. L’immagine è quella della copertina del disco, quella blu. Sono due filosofi, due pensatori. Un particolare di un quadro di Raffaello, lo hanno detto in un programma di Videomusic.
TORINO – STADIO DELLE ALPI. Sabato 27 giugno – Ore 17.00 – Apertura Porte Ore 13.00”. Ho imparato a memoria ogni frammento di quel biglietto, conosco anche il numero seriale di ingresso. Amo il mio biglietto del concerto. Lo amo così tanto che ho paura. Ho paura che quando lo strapperanno, quando lo strappatore di biglietti del concerto dei Guns lo prenderà per strapparlo, commetterà un errore, non presterà la necessaria attenzione, non seguirà la dentatura dello strappo, lo rovinerà. Sono preoccupato. Poi decido che il destino farò il suo corso, devo solo sperare nella meticolosità della strappatore di biglietti. Posso farcela.
Manca poco, è ora, sono teso, in confronto l’esame che ho appena sostenuto mi ha agitato come una partita di pinnacola con la nonna. Questa è tensione vera, questo è un distillato di panico ed eccitazione che cade, mese dopo mese, goccia a goccia, nel bicchiere che mi sto preparando a bere. Alla canna. Tutto d’un fiato.
Questi sono i Guns N’ Roses, a Torino, il primo concerto della mia vita, il primo vero, il primo da solo. Solo io e il rock, io e i Guns. E va bene, forse anche, non so, 59.900 e rotte altre persone, ma loro non hanno quel feeling, quell’intesa, quell’alchimia naturale che c’è tra me e i cinque ragazzi di L.A. Ne sono certo, mi dispiace, che gli altri se ne facciano una ragione.
Guardo l’ora, ancora venti minuti e passeranno a prendermi. In casa non resisto più. Prendo lo zaino, è pesante, non so neanche cosa ci ho messo dentro. Un ricambio, una bottiglia d’acqua, dei fazzoletti e un incudine, probabilmente.
Quando sono già sul pianerottolo, in attesa dell’ascensore, realizzo che forse è meglio se metto le scarpe. Le ciabatte non sono la calzatura più adatta, non stanno bene con i jeans.
Recupero le chiavi, già finite sepolte nel misterioso e gravoso contenuto dello zaino e rientro a infilare le scarpe.
Sul giornale di mio padre ho letto l’articolo che parlava del concerto: “per accedere al prato sono obbligatorie le scarpe da ginnastica”, diceva. “Perché?”, ho pensato, “esistono altri tipi di scarpa?”.
Giù in strada, la giornata sembra una come tante. Le solite buche del marciapiede, le scritte sui muri, le macchie di olio sull’asfalto, l’odore di periferia. Una signora bassa e grassa fuma una sigaretta lunga e sottile, alla fermata del bus. La pensilina è ancora rotta. Le pubblicità scollate. Il bus in ritardo. Un tizio taglia la via impennando sul suo Ciao truccato e dipinto di giallo. Il mio amico Gigi mi saluta da lontano, ha una converse rossa e una verde. La sua divisa. Vuol dire che oggi lavora.
Mentre aspetto, mi guardo riflesso nel portone di casa. Mi volto per guardarmi la schiena. Sulle spalle della mia maglia nera, il simbolo dei Guns N’ Roses: due pistole e due rose. Non molto originale, in effetti. Però c’è anche un sacco di sangue che cola e schizza dal proiettile che mi ha appena colpito. Sul retro del proiettile, argento e oro, è inciso il nome del gruppo. A me sembra una maglia cazzutissima, con le maniche arrotolate e una spilla da balia sul colletto.
Arrivano Davide e Renzo, sono in anticipo anche loro. Renzo ha rubato qualche sigaretta a sua madre. Sono delle MS lunghe e aromatizzate. Fanno schifo. Davide ha comprato cinque accendini. Per i pezzi lenti, perché ha paura che si consumino. Me ne faccio dare uno, ma lui ci resta male. Devo impegnarmi per convincerlo che con quattro accendini potrebbe farsi tutto il tour europeo.
Suona un clacson, ecco gli altri. Sul furgone di suo padre, ci sono Pierre, il portiere della mia squadra di calcio e Dodo, professione stopper. Ovviamente c’è anche il padre di Pierre, è quello che guida il furgone.
Ci sono cinque posti e noi siamo sei. Davide si siede nel cassone posteriore, lo vedo che armeggia con una fune per fissarsi alle pareti. Speriamo bene.
Pierre è francese da parte di madre, cioè sua madre è francese, suo padre è italiano, anche lui è italiano, ma con la madre francese. A dire il vero, non mi è del tutto chiaro questo quadro di parentele e nazionalità. Suo padre mi chiede: “I tuoi? Sono tranquilli?”. Rispondo di sì, immagino di sì. Mio padre è uscito in bici, mia madre è a fare la spesa al mercato. Prima di uscire mi hanno detto di stare attento, si sono raccomandati. Mio padre, a dire il vero, mi ha detto di non fare il cretino, ma io l’ho voluto interpretare come un premuroso e attento richiamo alla mia responsabilità. Che poi cosa puoi dire ad un figlio di 14 anni che va ad un concerto simile da solo? A lui: “fai il bravo”. A te stesso: “che Dio ci assista”. E considerato che i miei vecchi sono più atei di un frigorifero da campeggio o di un campo da bocce, non saprei se sentirmi rincuorato.
Scendiamo dal furgone dove la folla incomincia a farsi più fitta. Ci incamminiamo. Lo stadio sembra galleggiare come un’enorme zattera nel mare di gente che lo circonda. Fa caldo. Mi guardo intorno, osservo le persone che mi camminano intorno, quelle sedute per terra, che bevono birra e fumano. Un dubbio affiora con forza, ho la sensazione di essere un po’ fuori età. Non che mi senta piccolo, non sia mai. Mi sento, piuttosto, in anticipo.
Dopo venti metri mi accorgo che abbiamo già perso Davide. E questa cosa non va bene. Lo ritrovo che sta cercando di riprendere un accendino da sotto una macchina. Gli è caduto mentre controllava se li aveva ancora tutti. L’operazione di recupero è lunga e complicata, sotto il sole cocente, con la complicazione che l’auto è appena stata parcheggiata e ogni componente scotta come la lava. Guardo la targa, arriva da Bologna. Appunto. Vorrei lasciar perdere ma mi rendo conto che per qualche ignoto motivo questi maledetti accendini sono molto importanti per lui. Magari ha dimenticato il biglietto, non mi stupirei, ma gli accendini sono la cosa a cui, oggi, tiene di più. E non fuma neanche. E ha solo due mani. E farà buio tra otto ore. E non c’è molto altro da dire, ma lo aiuto comunque, perché è un mio amico e perché se non la smette lo uccido.
Quando raggiungiamo gli altri, davanti agli ingressi, gli altri si sono ridotti al solo Renzo. Pierre e Dodo se ne sono andati. Non ho voglia di chiedermi perché. L’appuntamento per il ritorno è dove siamo arrivati. Facile. Spero.
Ci sediamo ad aspettare che aprano i cancelli. Sento l’ansia crescere nello stomaco, manca davvero poco. E quando dico poco intendo un quarto d’ora all’apertura, quattro ore all’inizio dei gruppi di spalla e sette ore ai Guns. “Aiuto” – penso – “una cazzo di eternità!”. Moriremo sciolti dal sole e dall’attesa. Sento l’asfalto inghiottirmi. La pelle liquefarsi. Le forze abbandonarmi. Bisogna fare qualcosa.
“Hai portato la birra?” – chiedo a Renzo. Lui mi risponde con un sorriso sprezzante, da uomo di mondo, da lupo di mare, da cowboy della prateria. “Certo” – sibila, mentre tira fuori dallo zaino tre lattine di una marca che non ho mai visto. Ce le lancia. Davide si prende la sua sulla spalla, io fermo la mia a un centimetro dal naso. Sono calde. Quando la apro quasi esplode, devo tenerla come fosse un idrante. Fortuna che non bagno il tizio che mi sta di fianco, dal modo in cui mi guarda capisco che non avrebbe apprezzato. Renzo sfila una sigaretta dalla tasca. “Non c’è niente di meglio, con la birra”, sentenzia, con il solito sorriso da Steve McQueen.
“Dave hai da accendere?”. “No”. “Come no?”. “Mi servono dopo”. Passo a Renzo il mio accendino e interrompo una conversazione che stava già per uccidermi.
Beviamo una birra calda e fumiamo una sigaretta scadente sotto il sole. A stomaco vuoto. A cervello spento. A cuore gonfio. E a nervi tesi. Per fortuna aprono i cancelli quando la testa comincia a girare e la pancia a lamentarsi. Non c’è tempo per stare male, si va.
Ci lasciamo trasportare dalla folla nella pancia dello stadio, lo zaino appeso davanti per paura che qualcuno rubi l’incudine, il biglietto già posizionato nel modo studiato per aiutare lo strappatore di biglietti a non fare danni, nell’aria l’odore acre di panini unti e sudore.
Non so come, dieci minuti dopo, ci ritroviamo seduti nel secondo anello dello stadio. Non ho badato alla strada, controllavo le condizioni del biglietto. Sembra integro, buon lavoro strappatore!
Quando dopo quattro ore i Soundgarden salgono sul palco mi sembra che siano trascorsi quattro giorni. Guardare la gente riempire lo stadio e Davide fare le prove con gli accendini può essere divertente, per cinque minuti, ma poi lo sconforto e il desiderio di gettarsi sul primo anello rischiano di prendere il sopravvento. Ogni istinto suicida, comunque, svanisce in fretta nel muro di suono che arriva dal palco. I Soundgarden sono bravi e il cantante con i capelli lunghissimi ha una voce pazzesca. Suonano mezz’ora. Poi tocca ai Faith no more. Anche loro suonano alla grande e il pubblico incomincia a scaldarsi davvero. Quando fanno il pezzo famoso, quello con il video in cui il cantante ha i guantoni e rappa, quello in cui alla fine c’è un pesciolino che muore sulle note del pianoforte e poi il pianoforte esplode, la gente è carica e lo stadio tuona. Alle 19.30, quando manca mezz’ora, la folla freme: Guns and Roses…Guns and Roses. Il coro toglie il fiato. Non resisto più, devo muovermi, voglio scendere, andare in mezzo agli altri, più vicino al palco, sul prato. Sento una specie di senso di colpa, dopo tutta l’attesa, l’ansia, l’aspettativa, a restarmene seduto su quella seggiolina a duecento metri da Axl. Non esiste, mi dico. Andiamo. A convincere gli altri ci metto un minuto e siamo già sulle scale. Quando mettiamo piede sul prato, lo stadio esplode in un boato fragoroso. Alziamo la testa, non è per noi (lo ammetto, per un attimo ci ho pensato), le luci sono accese, il palco è pronto, gli strumenti aspettano, con le orecchie e i cuori di tutti, di essere presi, percossi e posseduti. Mi faccio strada tra la folla, spingo, scarto, scivolo, sgomito, mi insinuo, conquisto metri. Poi i Guns N’ Roses salgono sul palco e tutto si ferma, si interrompe, compresa la mia salivazione e l’ossigenazione del cervello. Attaccano con It’s so easy. Basso, batteria, chitarra, delirio. Axl è tutto vestito di bianco, con i pantaloncini stretti e la bandana rossa che lega i capelli. Slash ha una giacca sgualcita e agita i riccioli come un pazzo. Non stacco gli occhi dal palco, dagli schermi enormi che sono montati ai lati e che ci inondano di immagini frenetiche della band, delle coriste, del vortice di teste che si agita sotto di loro.
Davide e Renzo sono spariti, provo a cercarli, nessuna traccia, neanche la luce di un accendino o la puzza di MS. Pazienza. È il momento di Mr. Brownstone e di gridare “we been dancin’ with…Mr. Brownstone”. Non mi sembra vero, esserci, cantare, fare parte di quel momento, viverlo. Sono a metà del prato, voglio avvicinarmi ancora. Live and let die. Non è facile, ma proseguo, è una missione, la mia. Attitude. Ancora qualche passo, sono sudato marcio, ma sono fiero, sono vicinissimo e qui sembra esserci meno gente. Axl saluta il pubblico, corre come un pazzo, poi si ferma e dice il titolo della prossima canzone: Welcome to the jungle.
Slash fa correre l’elettricità sulle corde della chitarra e Axl è di fianco a lui, prende la voce e la lancia nel grido più graffiato della storia del rock.
Sono incantato, estasiato, assorto e non mi accorgo dello strano vuoto che si sta creando intorno a me, sento l’aria sulla pelle, respiro meglio, non ho spalle sudate addosso, ascelle minacciose da evitare, zaini in faccia, anfibi sui piedi. Mi sembra di essere solo. Un sogno. Un sogno dal quale mi sveglio. Un sogno dal quale mi sveglio quando il pezzo attacca nel riff. Un sogno dal quale mi sveglio, con la forza d'urto di un treno che si schianta su una montagna a tutta velocità.
Un muro di gente mi frana addosso, mi travolge, mi risucchia, mi mena, mi centrifuga. Non riesco a stare in piedi, lo zaino mi finisce sulla testa, metto le braccia in avanti e prendo una gomitata sulla schiena, ributto lo zaino all’indietro e qualcosa, credo un ginocchio, mi colpisce in pancia. Rimbalzo senza sosta da una spallata ad un’altra e per un momento, un brevissimo istante di lucidità, do un nome a quello che mi sta succedendo: pogo. E aggiungo un aggettivo: pogo violento.
Mi inciampo, non riesco a rialzarmi, striscio per terra e penso che sto per morire, quando mi sento afferrare e trascinare di forza per qualche metro.
Mi alzo e lo vedo. Sarà alto due metri, capelli lunghi, sudati, davanti agli occhi, barba, stivali, gilet di pelle su petto nudo, il braccio che mi tiene completamente tatuato, mille orecchini, una catena legata tra un orecchino e il naso. Davvero. Mi guarda serio. Sta per parlarmi e so che sarà una verità profonda e illuminante. Una lezione di vita. Una rinascita. Una rivelazione rock.
Poi si abbassa, mi fissa e dice: “levati dai coglioni…testa di cazzo!”.

Sono passati quasi vent’anni e ancora i ricordi di quel concerto respirano vividi nella mia memoria. Soprattutto ricordo lui, l’uomo con la catena, l’uomo che mi ha salvato la vita e che in un certo senso, con parole sue, mi ha accolto nel suo mondo e mi ha dato il benvenuto. 
Benvenuto nella giungla.