mercoledì 27 gennaio 2010

Domenica mattina


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Il cielo era limpido e sgombro dalle nuvole che per tutta la settimana avevano vagato inconcludenti sopra la città. Il sole gettava lunghe ombre scure sul campo, in particolare sulla fascia vicina alla tribuna, proiettando le sagome dei pochi spettatori presenti: genitori fanatici e raminghi della domenica mattina. La partita era iniziata da qualche minuto, ma l’allenatore della squadra avversaria già gridava come un indemoniato. Capelli ricci, baffi neri e basette anni settanta, il loro mister aveva l’abitudine di urlare dall’inizio alla fine della partita, soprattutto se non c’era motivo di farlo. Nella mia società lo chiamavano “il tarantola”, per come si dimenava in panchina. Gino, il proprietario del bar diceva che per farlo stare zitto ci voleva l’esorcista.
Negli spogliatoi, mentre ci cambiavamo, il nostro allenatore ci parlava ma noi non lo ascoltavamo neanche. Pensavamo solo alle divise nuove, rosse e blu, che proprio quel giorno indossavamo per la prima volta. Non mi era mai successo, da quando giocavo a calcio, di indossare una divisa nuova di pacca, di essere il primo a farci una partita. Guardavo la maglietta con il numero 8 come fosse quella della nazionale.
Verso la metà del primo tempo, mentre “il tarantola” gridava ad un certo Panizzi di tornare e di marcare stretto il nove, un elicottero volò basso, proprio sopra le nostre teste. Per qualche istante la partita si interruppe, sospesa nel rumore assordante delle pale e del motore. Il pallone rimbalzò, solitario, in mezzo al campo. Prima di riprendere il gioco, qualcuno dagli spalti gridò qualcosa all’arbiro. Alla fine del primo tempo vincevamo uno a zero.
Durante l’intervallo, seduti per terra, davanti alla panchina, aspettavamo le indicazione del mister e il the caldo. Dall’altra panchina ci giungevano le grida concitate del “tarantola”, ma non ci prestai particolare attenzione, mi sdraiai e guardai il cielo. Ero felice, mi piaceva la partita della domenica, soprattutto quando vincevamo. Mi piaceva guardare i miei compagni e sentirmi parte di una squadra. Era tutto bello: gli avversari, l’arbitro, ogni cosa.
Nel secondo tempo segnammo anche il due a zero. Andava tutto alla grande, fino all’incidente.
Lungo rinvio con i piedi, ribattuto di testa da un avversario e poi smorzato da un mio compagno. Il pallone rotolava lentamente verso il bordo del campo, mentre io ed un ragazzo dell’altra squadra ci andavamo incontro. Ricordo solo la corsa e poi il contrasto, forte, deciso, violento.
Il pallone schizzò di lato, finendo oltre la linea laterale, mentre il grido del mio avversario lacerava l’aria e mi rimbombava in testa. Restai immobile, con lo sguardo fisso su di lui, che si rotolava a terra, piangendo ed urlando, mentre si teneva il ginocchio destro con entrambe le mani. Non sapevo che fare, cosa pensare. Cercai di rialzarlo, ma senza convinzione, ero confuso. Dalle panchine arrivarono di corsa e mi allontanarono, gli avversari mi spingevano. Dicevano che era grave, che bisognava chiamare l’ambulanza.
In un attimo mi cadde il mondo addosso. Non era la prima volta che qualcuno si faceva male, anche io mi ero preso una distorsione, ma quello non era il giorno giusto, non ero preparato.
Quando la partita riprese non riuscivo più a giocare, mi tremavano le gambe e non vedevo bene, mi girava la testa. Il mister mi sostituì proprio mentre l’ambulanza lasciava il centro sportivo.
Mi dicevo che non era stata colpa mia, era lui che non aveva fatto il contrasto come si deve, io non potevo fare niente. Ma la sua gamba era rotta ed era contro di me che aveva sbattuto.
“Perché proprio oggi?”, mi domandavo. Era tutto così bello: il sole, l’erba che ricominciava a crescere e le divise nuove.
Sotto la doccia, con le lacrime che si mischiavano all’acqua e al sapone, guardai la maglia sulla panca e mi ripromisi che la prossima volta che l’avessi indossata sarei stato più forte, più duro, più uomo.

lunedì 18 gennaio 2010

Malibu Surf Shack

16 ottobre 2009

Il sole è ormai alto sopra l'oceano quando parcheggio la Mustang di fronte al Malibu Inn. Entriamo a comprare una Coca ghiacciata e andiamo a berla sul molo, guardando verso sud, verso il Messico.
Stiamo risalendo la costa, sulla Pacific Coast Highway, fino a San Francisco.
Questa mattina ci siamo svegliati presto e abbiamo lasciato l'Hacienda Hotel di El Segundo alle prime luci del giorno. Le strade di Los Angeles erano già un groviglio di sole, lamiera, gas di scarico e stazioni radio in spagnolo.
A Venice Beach i primi surfisti davano la cera alle tavole e osservavano l'oceano, la spinta del vento, il ritmo delle onde. In lontananza il molo di Santa Monica, tutto intorno sabbia bianca, palme, California. Abbiamo mangiato la nostra colazione sulla spiaggia, guardando i pellicani tuffarsi tra le onde, poi siamo saltati in macchina e siamo partiti verso nord.
La giornata è meravigliosa, limpida e profumata. La tenue nebbia del mattino si è dissolta e adesso il sole di Malibu è caldo, bollente. Arriviamo da New York, dove l'autunno non era così gentile e i jeans che indosso si fanno sempre più insopportabili. Vorrei cambiarmi, vorrei un paio di pantaloncini, ma sono sotterrati in valigia. Impresa impossibile.
Ci guardiamo intorno, in cerca di una soluzione.
Malibu Surf Shack dice l'insegna appena oltre la curva, nel disegno sotto la scritta una capanna sulla spiaggia. Dal parcheggio vediamo uscire un pick up con tre tavole nel cassone e decido che quello è il posto perfetto per comprare gli shorts di cui ho bisogno. Saliamo una scala di legno esterna che porta al negozio, poi ci fermiamo sul terrazzo di ingresso. La vista è mozzaffiato: le insenature della costa, i colori dell'oceano, l'orizzonte.
All'interno è fresco, ordinato e divertente. Il proprietario ci saluta, ai suoi piedi un cane bianco dorme girato sulla schiena. In sottofondo musica che non conosco e che mi fermo ad ascoltare.
Il surfshop è bello, verrebbe voglia di comprare tutto, ma alla fine mi accontento di una maglietta con il logo del negozio. I pantaloncini li prenderò da un'altra parte.
Andiamo a pagare e il ragazzo ci chiede di dove siamo.
"Torino. Italia" rispondo.
Forse dovrei dire "Beinasco. Piemonte", ma temo di non fare bella figura.
Lui ci guarda, estasiato, si illumina, inizia a magnificare di quanto sia bella l'Italia, del cibo, la storia, di Roma, il Colosseo.
Poi, con aria sognante, ci fissa, noi creature della periferia torinese e sospira: "beati voi!".
Ora io guardo lui: abbronzato, muscoloso, infradito, vende tavole da surf a Malibu.
E penso: "amico, cosa fumate da queste parti?".
"Sul serio, roba forte, eh!"
Beati voi?
Beati voi???
Vorrei spiegargli che Torino Sud non è proprio un posto in cui si respira la storia e che il Colosseo è un po' fuori mano. Mi scapperebbe anche un "cazzo dici", ma poi penso a dove lavoro, a quanto è bella Torino quando nevica e che in fondo mi piace dove vivo. In fondo, ma mi piace.
Strano il mondo, mi dico. Strano gioco delle parti.
Firmo la ricevuta della carta di credito, stringo la mano al ragazzo e rimando i pensieri a più tardi.
Dobbiamo rimetterci per strada. La California ci aspetta e voglio essere a Santa Barbara prima del tramonto.



giovedì 14 gennaio 2010

Killing in the name


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Mai preso una testata?
Un pugno in faccia?
Uno schiaffone a mano aperta?
Io sì (almeno uno per tipo, a dire il vero) e se anche tu ne hai avuto la fortuna, allora sai quali sono i risultati. Non parlo del dolore, quello arriva in un secondo momento, ma della miscela instabile di reazioni chimiche che ti invade immediatamente dopo. Le gambe tremano, il cervello rimbalza tra le pareti del cranio, gli occhi sfuocano, il cuore pompa e lo stomaco si attorciglia. Poi, in disordine: stordimento, rabbia, una leggera vergogna, sdegno, rabbia, istinto di reazione, rabbia, rabbia, rabbia!
Questa è la sensazione che provo ogni volta che ascolto il primo, fottutissimo, disco dei Rage Against The Machine.
Posso romperti il culo, stanne certo! Aggiungi che, se solo me lo chiedessero, sarei pronto anche alla guerriglia e alla lotta armata e avrai un quadro abbastanza completo.
Quello con il bonzo che brucia è uno dei dischi più innovativi degli ultimi vent’anni.
Una detonazione di potenza, ritmo, tecnica, groove, denuncia. Ti fa saltare, gridare, sudare.
La chitarra di Tom Morello è geniale e letale, la sezione ritmica devastante e il rap di Zach De La Rocha asciutto e graffiante, un bel calcio nelle palle a tutti quei rapponi ingioiellati di Mtv.
Per dirla in termini tecnici, insomma: i Rage spaccano, raga!
Fuck you, I won't do what you tell me!
Fuck you, I won't do what you tell me!
Fuck you, I won't do what you tell me!
Fuck you, I won't do what you tell me!
Motherfucker!
Uggh!



giovedì 7 gennaio 2010

Elogio del retrovisore

Di tutti i pezzi che compongono l’auto quello che preferisco è, in assoluto, lo specchieto retrovisore. In tutte le sue declinazioni: interno, esterno destro e sinistro. Non è una questione di estetica, è ovvio, anche con tutto il design di questo mondo uno specchietto resta sempre uno specchietto, plastica e vetro. No, quello che fa la differenza è la sua versatilità, l’adattabilità, la polivalenza.
Prendi il contachilometri, a cosa serve? A contare i chilometri.
E il freno? A frenare, al massimo a rallentare. Il volante serve a girare. La marmitta a fare uscire i gas di scarico. Semplice.
Lo specchietto retrovisore, invece, è tante cose, contemporaneamente. È complesso, profondo, poetico.
Dovessi anche solo limitarti ad un’interpretazione superficiale potresti dire che la sua funzione principale è “guardare indietro senza voltarsi”. Sembra banale, è vero, ma pensaci bene, è quasi magia: “guardare indietro senza voltarsi”. Miracoloso.
Posso superare il camion che ho davanti? Posso uscire dall’autostrada o qualche stronzo mi sta sorpassando a destra? Solo il retrovisore può rispondere a queste domande. Esistesse il libretto di istruzione delle auto, lo specchietto avrebbe diritto al capitolo centrale e alla foto di copertina, non c’è storia.
A decretare la sua superiorità rispetto agli altri pezzi basterebbe questo, ma lasciami aggiungere qualche elemento. Dove appendi i pupazzetti? Gli alberelli profumati, i crocifissi o l’auricolare? Io, per anni, ci ho tenuto appeso Ken Shiro!
Non so te, ma quando vado ai matrimoni i fiocchi li lego agli specchietti, non al paraurti o al carburatore. Si, forse anche all’antenna o al tergicristalli, ma sugli specchietti stanno meglio.
A volte poi, nei momenti peggiori, quando magari sei fermo in coda, il retrovisore si trasforma in uno schermo su cui scorrono le mille storie di chi ti segue: sguardi tristi, volti distratti, discussioni animate e solitudini varie. Sono film di vita, che puoi scrivere e riscrivere ogni volta che vuoi, proiettati solo per te. Una volta, a Los Angeles, in coda su La Cienega, ho visto il tipo che guidava il pick up che mi seguiva, un nero grosso come una montagna, che rappava in free-style su qualche base che sparava dall’autoradio. Spettacolare.
Immagina adesso di guidare lungo una soleggiata strada costiera o attraverso una vallata desertica e pianeggiante, tra le fitte trame di un bosco innevato o per i crinali di una dolce collina verde e rigogliosa. Davanti a te meravigliosi paesaggi, che poi scorrono rapidi ai tuoi fianchi, mentre procedi nel tuo viaggio.
Come un ricordo rovesciato, come una forma di memoria immediata e ribaltata, lo specchietto retrovisore ti permette di rivedere quello che hai appena visto da un’altra prospettiva, dall’altro lato. Lo stesso mondo, ma dall’altra parte.
Questa è la magia del retrovisore che amo di più: il fascino del ribaltamento, l’occasione del ricordo, l’urgenza della memoria.