venerdì 21 novembre 2014

Tracce... Buffalo Tom - Taillight fade



Un garage, tre strumenti, corrente elettrica. Sincerità. Vita vera.
Per una canzone serve poco altro. Nessun filtro, presa diretta.
Il resto sono solo stronzate, espedienti da talent show, furbizie da industria discografica.
I Buffalo Tom sono di Boston, diventano amici all'università, formano una band e suonano rock. Questo brano è del 1992, la seconda traccia dell'album "Let me cover in". 
Non conoscevo i Buffalo Tom, sono uno di quei gruppi che in Italia non sono mai arrivati. Era l'anno di "Automatic for the people" dei R.E.M., "Angel dust" dei Faith No More, "Dirt" degli Alice in Chains, il primo disco dei Blind Melon, quello dei Rage Against The Machine con Killing in the name, "Incesticide" dei Nirvana, "Dirty" dei Sonic Youth. Insomma, gli scaffali di alternative rock erano pieni come mai prima, difficile trovare spazio per i Buffalo Tom. 
Non li avevo mai ascoltati quindi. E mi rendo conto che potrebbe sembrare una cosa poco grave, ma non è così, credetemi, perchè mi stavo perdendo un pezzo importante del mio percorso musicale.
Poi un giorno, perso tra le pieghe del web, inizio ad aprire video a caso e mi imbatto in questa canzone. Da quel giorno l'ho ascoltata così tante volte che credo di avere ormai recuperato il tempo perduto.
Quando un giorno dovrò spiegare a mia figlia cosa cerco nella musica (sono sicuro che succederà), le farò ascoltare "Taillights fade" dei Buffalo Tom.
Non è la mia preferita, non è la più bella, ma per me questa canzone è una specie di manuale della musica. Almeno di quella che piace a me. Perchè è semplice, diretta, reale. Perchè se ti impegni un po' riesci a suonarla anche tu, Perchè fa piangere e fa gridare. Perchè parla di sconfitte, di solitudine, di vita vera. Perchè non ti prende in giro e non ti promette niente. Perchè non ha una bellezza nascosta tra le righe, ma ti scarica addosso tutta l'emozione che si porta dentro. Perchè ogni volta che l'ascolto, ho voglia di ascoltarla ancora una volta.
Queste sono le canzoni che amo, quelle che dobbiamo proteggere e preservare, perchè non spariscano "come fanali posteriori che si spengono nel buio".


giovedì 22 novembre 2012

Io sbatto


Una piccola chiesa medievale, arroccata sulla cima di una collina. Dal sagrato si vedono le montagne e un’ansa del lago. Diluvia. La cappella è stipata di invitati. Anche quelli che in una giornata di sole sarebbero fuori a fumare con una scusa qualsiasi, si stringono in chiesa per proteggere l’abito elegante. Si sposano due amici e ci siamo anche noi, in una nicchia vicino al coro. Siamo in attesa, abbiamo un compito. Quando il prete annuncia lo scambio degli anelli ci muoviamo, è il nostro momento. Porto mia figlia all’inizio della navata centrale. Lei si avvia, a piccoli passi, con il cuscino delle fedi tra le mani. Tutti gli occhi sono per lei, mentre consegna gli anelli agli sposi. Si volta e torna indietro di corsa, verso di me. La prendo in braccio e mi alzo in piedi, tra l’orgoglio per la mia piccola e l’imbarazzo per l’attenzione generale. Mi volto, mi avvio e succede di nuovo. Sbatto una terribile ginocchiata contro l’ultimo banco della chiesa. Resto in piedi per miracolo e soffoco in gola un bestemmione che avrebbe annullato il matrimonio per almeno vent’anni e portato all’immediata scomunica di tutti i cattolici presenti. Non sento risate ma ci sono, arrivano come sparate con il silenziatore. Infine, biascicando qualche parola intraducibile, sulle labbra un sorriso altrettanto indecifrabile, torno al mio posto.
Questa è solo una scena, per la verità piuttosto divertente, ma come questa, magari meno clamorose, ce ne sono infinite altre.
Questa è la mia normalità. Io sbatto. Sempre e da sempre. Sbatto con i piedi, gli stinchi, le ginocchia, le anche, i gomiti e le spalle. Sbatto di notte, al buio, nella consuetudine della mia casa. Sbatto in pieno giorno, alla luce del sole, in luoghi sconosciuti. Sbatto contro sedie, gradini, tavoli, stipiti e infissi, scrivanie, divani, portiere delle auto, oggetti abbandonati e in movimento. Sbatto in ogni modo possibile. Io sbatto.
Non esistendo specialisti in questa strana patologia, negli anni, ho cercato di darmi delle spiegazioni e credo che le cause siano riconducibili a tre tipologie di problema: strutturale, satellitare ed esistenziale.
Ho le gambe storte, da cowboy, i piedi lunghi e l’andatura dondolante. Per quanto mi impegni a tenere sotto controllo i movimenti, questa struttura fisica mi porta in dote un’inevitabile predisposizione ad uscire dalle traiettorie. La conseguenza, ovviamente, è sbattere.
Bisogna poi tenere conto che, di solito, dove non arriva il corpo dovrebbero subentrare i sensi, quelli innati, non tangibili, quelli animali. In questo caso devo constatare di avere qualche serio problema di posizionamento geografico e di mappatura ambientale. Insomma, qualcosa non funziona a livello satellitare perché le stanze sembrano di colpo rimpicciolirsi, gli angoli allungarsi, gli oggetti spostarsi, rispetto a quello che il mio cervello registra al momento del movimento.
E anche in questo caso, l’ovvia conseguenza è sbattere.
A lungo ho riflettuto, guardandomi dentro e indietro, scandagliando con meticolosa attenzione ogni centimetro del mio essere e sono convinto di avere infine compreso una cosa importante. La mia propensione a sbattere è esistenziale. Non si tratta solo di colpire un comodino con il ginocchio o di urtare la spalla contro l’anta dell’armadio, ma della fatale impossibilità di scansare quello che la vita dissemina lungo il suo percorso. Le sorprese e gli errori, le sfortune, i regali,  le delusioni e le speranze, i dolori, le responsabilità, le delusioni e le opportunità. Gli incontri imprevisti, le persone, quelle buone, generose, cattive, speciali, quelle che restano e quelle che spariscono. Ogni curva, ogni salita, ogni incrocio. Contro ogni muro, ogni maledetto spigolo, io ci sbatto.
Può sembrare semplice distrazione, forse, ma non lo è. Questo è il mio modo di vivere e di essere. Io sbatto e mi sta bene così.

mercoledì 1 agosto 2012

Treni


Me lo aspettavo, lo temevo, era nell’aria da tempo. Eppure, in fondo, non ero davvero preparato. Sarà stato per quella bella giornata di sole o perché la vita non mi aveva ancora abituato ad attendermi il peggio, ma ero uscito di casa con una grande carica di ottimismo, riponevo grandi speranze nel futuro. Come piano B, in ogni caso, speravo di cavarmela, ancora una volta.
Invece, nonostante tutti i miei sforzi di trovare segnali positivi ovunque, dalle forme delle nuvole alla frequenza dei semafori verdi, malgrado le preghiere rivolte ad ogni divinità dell’Olimpo e dell’Empireo, il dramma tanto paventato, infine, si consumò.
Capii che ero stato bocciato ancora prima che si aprissero le porte del pullman. Percorsi il tratto di cortile tra la fermata e la parete su cui erano appesi i risultati sotto lo sguardo di decine di ragazzi, una sorta di passerella della compassione e del sollievo. Come un cowboy solitario che attraversa il paese, verso il suo destino, mentre gli abitanti lo osservano dalle finestre, dalle verande, i bambini dai tetti, gli ubriachi dalla porta del saloon, io tagliai in due il cortile della scuola, a testa bassa. Ovunque, intorno a me, occhi che parlavano chiaro, inesorabili. Labbra contratte. Mascelle serrate. Maschere di contrizione. Erano tutti tristi, molto tristi, per me.
Ma per favore! Falsi. Giuda. A parte gli amici, quelli che lo sono ancora oggi, erano tutti dei maledetti traditori. Per un anno complici e per cinque minuti amareggiati. Loro parlavano e io vedevo i sottotitoli. “Mi dispiace”, dicevano. Io leggevo: “Cazzi tuoi Matte”. “Sono stati davvero stronzi”, sentenziavano. “Meglio a te che a me”, decifravo io.
Infami, è facile fare gli indignati con le disgrazie degli altri.
Decisi, come il cowboy, di andare fino in fondo, tuttavia, per guardare in faccia il destino, che nel mio caso erano i cartelloni con risultati.
Due materie con il quattro e due con il cinque. Non ammesso!
Ma cosa vuol dire “non ammesso”? Che razza di ipocrisia. Non ammesso alla classe successiva? E chi se ne fregava dell’anno successivo, era per quello appena finito che mi giudicavano. Non mi ricordavo che il professore di matematica mi minacciasse dicendo “Se continui così non ti ammetto alla classe terza”. “Ti boccio”, mi diceva.
Perché non scrivevano bocciato. Era quella la realtà. Bocciato.
Certo, per quanto importante, questa battaglia lessicale non era al centro dei miei pensieri mentre tornavo verso casa. C’erano problemi ben più tangibili che gravavano sul mio futuro: mio padre e la sua reazione alla notizia. Bruciavo a fuoco lento. E nel mondo pre-telefonia mobile le attese potevano davvero essere logoranti e micidiali.
Inutile dire che non la prese bene. Per quanto anche lui non si aspettasse grandi risultati, non diede la sensazione di essersi preparato a gestire con calma la situazione. O forse decise deliberatamente di incazzarsi come un pazzo. Come saperlo?
In ogni caso, quelli immediatamente successivi, furono giorni di inferno, scanditi dall’attesa di sapere quale sarebbe stato il mio destino. Mio padre era silenzioso, tramava qualcosa. Sapeva che poteva impedirmi di uscire, per punizione, ma sapeva anche che invece che stare a fare un cazzo ai giardini, avrei fatto un cazzo a casa. L’idea lo tormentava, così escogitò un piano. Doveva avermi sotto controllo e farmi capire, allo stesso tempo, come funziona il mondo, come funziona per le persone che si danno da fare, che non scappano di fronte alle responsabilità, che si guadagnano da vivere. Per questo una sera di giugno, seduti in cucina per la cena, mi comunicò la sua decisione: sarei andato a lavorare con lui, ogni giorno, per tutta l’estate, fino alle vacanze. Le sue, ovviamente. Le mie non erano contemplate.
Mio padre è ferroviere, anzi lo era. Adesso è in pensione, ma credo che per loro sia come per i militari, un’appartenenza eterna. Del tipo: ferroviere un giorno, ferroviere tutta la vita.
Ha cominciato molto giovane: era nel personale viaggiante in Val di Susa, che vuol dire da Torino a Modane, andata e ritorno, tutti i giorni e tutte le notti. Soprattutto le notti. Poi sono nato io e lui si è iscritto all’università. Studiava nel tempo libero e tra una stazione e l’altra.
Anni dopo, con la laurea in tasca, partecipò a un concorso interno e passò ad un lavoro d’ufficio, nella sede di Porta Nuova a Torino, proprio sopra l’atrio della stazione.
Sono sempre stato orgoglioso del lavoro di mio padre, così poetico e così semplice. Quando ero bambino mi piaceva rispondere alla domanda “che lavoro fa tuo papà”. Gonfiavo il petto e rispondevo rapido e determinato: il fer-ro-vie-re. Poesia e concretezza, storia e progresso. Tutto in una semplice parola.
Sempre ammesso che quando avrà l’età giusta per rispondere ad una domanda simile io abbia ancora uno straccio di occupazione, mia figlia ci metterà almeno venti minuti a spiegare come suo padre si guadagna da vivere. Il tempo complica le cose.
Così, ogni mattina mi svegliavo presto e partivo con lui. In quel periodo si occupava di gestire i magazzini delle stazioni piemontesi. Certi giorni eravamo in ufficio, a Torino, ma per la maggior parte del tempo viaggiavamo lungo le arterie della rete ferroviaria regionale. Il paesaggio scorreva veloce oltre il finestrino. Bruciato dal sole estivo. Caldo.
Poi lui spariva, in lunghe riunioni e sopralluoghi. Io restavo fuori, da solo. E mi perdevo. Camminavo lungo i binari morti, tra cataste di rotaie arrugginite e traverse ammucchiate. Saltavo su montagne di chiavarde, giunti di dilatazione, bulloni e piastre. Sedevo a fumare nei carri merci abbandonati. Mi arrampicavo sui tetti dei vagoni, lungo gli scambi. Mi sdraiavo a guardare il cielo.
Ho imparato molto in quelle lunghe giornate, i treni sono maestri, insegnanti silenziosi.
Ho imparato che i treni attraversano il mondo come occasioni sferraglianti, fendono l’aria di aspettative e speranze, seguono percorsi, tracciano cammini come le vite di ognuno di noi. Si incrociano, si perdono e poi si ritrovano.
Ho imparato che sono più quelli che partono, di quelli che arrivano. E che la maggior parte li guardiamo sfrecciare senza capire dove vadano e come fare a salirci.
Inutile dire che mio padre considerasse quei giorni come una punizione esemplare con la quale rimettermi in riga. E si potrebbe pensare che avesse ragione, perché obbligare un ragazzino a lunghe giornate solitarie a girovagare solitario nella desolazione delle stazioni di provincia sembrerebbe una dura imposizione.
Non per me, però. Perché quello che mio padre non sapeva era che se avevo buttato al vento un anno di scuola non era perché non passassi il tempo necessario seduto di fronte ai libri. Lo facevo, ma non erano i testi giusti. Nessun manuale di fisica o matematica. Nessuna antologia di classici latini. Leggevo Kerouac, Salinger, Hemingway, London. Ascoltavo Springsteen, tutto il giorno. Mi nutrivo di sogni di frontiera e viaggi lungo strade polverose.
Per questo non smetterò mai di ringraziare mio padre per quella punizione e ricordo con nostalgia la fatica con cui celavo il mio sorriso felice, mentre tornavamo a casa. Ne andava del mio castigo e della possibilità di avere un altro giorno a disposizione, un altro giorno per respirare avventura e per viaggiare sui treni della fantasia. 



http://www.youtube.com/watch?v=Nc_mv46NwT4&feature=related

mercoledì 22 febbraio 2012

Isora e Agostino

Quando suona la sveglia, nel silenzio di un’alba soffocata dalla nebbia, Isora è gia in piedi da un pezzo. Sono tanti anni che ormai si alza quando il mondo è ancora buio, ma la sveglia continua a suonare, alla stessa ora in cui l’aveva fissata Agostino. Affacciata alla finestra, attraverso le tende di pizzo che ha cucito con le sue mani, osserva il vasto campo piatto che si perde, nella vista, di fronte a lei. Isora è nata tra quelle mura, nell’antico casolare costruito da suo padre sul limitare del borgo di Molinella. Da 78 anni è casa sua. Ne ha viste tante di albe come questa, ha visto estati calde e soffocanti come solo l’inferno può essere e ha visto inverni così freddi che sembrava fosse ghiacciato anche il sole. Ha visto cambiare la città e il paesaggio tutto intorno, ha osservato il tempo cancellare tracce di un passato che era stato il suo presente. In albe come questa, però, con la nebbia mattutina che avvolge ogni cosa, Molinella sembra lo stesso paese di quando era bambina.
In camera da letto, sulla cassettiera c’è una sua foto di quando aveva otto anni e giocava nel cortile con un gatto spelacchiato. Sembra felice. Sul comodino, una foto di Agostino durante il servizio militare. Era così bello, in divisa, così fiero e sorridente. La foto del loro matrimonio, l’unica che ha conservato, ha il posto d’onore sul ripiano della credenza , in salotto. Non ci sono altre foto in casa. Non c’è mai stato nessun altro da ritrarre, nessun figlio, nessun parente, neanche lontano, nessun amico. E non mancano solo le foto. L’assenza è ovunque, si percepisce in ogni angolo della casa. Il vuoto è un inquilino, ormai. Ogni oggetto con un minimo di valore è stato venduto. Ricordi barattati per una manciata di denaro, per uno spiraglio di sopravvivenza. Non c’è più nulla tra quelle mura, solo aria viziata e un velo di tristezza che ricopre ogni superficie. Anche il più disperato e meticoloso dei ladri dovrebbe arrendersi all’evidenza e andarsene a mani vuote.
Sul letto ci sono tre pigiama stirati e piegati. Isora li ripone con cura in una busta di plastica, indossa la giacca, prende la borsa e si chiude alle spalle la porta di casa. Ci vogliono dieci minuti perché la macchina carburi, dopo averla accesa. Era già vecchia quando Agostino l’aveva comprata, di seconda mano, da un rivenditore alle porte di Bologna. Gli anni passati non sono stati clementi neanche con lei. Tutto invecchia. Tutto scivola inesorabilmente sulla linea del tempo. Anche le cose che possiedi invecchiano con te, Isora ha potuto vederlo con i suoi occhi.
La strada è sempre la stessa, nello svolgersi perpetuo del paesaggio all’esterno e nel ripetersi meccanico dei movimenti di guida. Rotonda, svolta a destra, semaforo, semaforo, rotonda, svolta a sinistra. La stessa strada, ogni giorno, da sette anni. La macchina sembra quasi in grado di procedere da sola, conosce il percorso. Isora si smarrisce nei suoi pensieri, li lascia scorrere, alcuni si perdono lungo la strada, altri, i peggiori,  restano chiusi nell’abitacolo, asfissianti. Una compagnia indesiderata, passeggeri clandestini. E ogni volta il parcheggio della clinica appare come un miraggio all’orizzonte, non come l’approdo, ma come la via di fuga. Spegnere il motore, aprire la portiera e lasciare uscire le presenze, i presagi, i pensieri, le paure. Liberarsene, almeno per un attimo, almeno per i pochi metri che separano il parcheggio dalla porta di ingresso.
Gerardo, il portiere, le rivolge un saluto sfuggente da dietro il bancone, mentre alza la cornetta del telefono. Isora procede lungo il corridoio, senza voltarsi, supera porte chiuse e aperte, fino alla numero 18.
La stanza è in penombra, la serranda è ancora chiusa e la debole luce che entra dall’esterno si amalgama con il neon del bagno, sempre acceso, sempre ronzante. Agostino è nel letto. Sembra che stia dormendo. Isora si muove in silenzio, nel silenzio. Ci è abituata. Osserva suo marito, nella stessa posizione in cui lo ha lasciato ieri. Gli occhi chiusi. La stessa posizione che sembra avere da anni. Lo guarda e non può evitare di tornare con la memoria al giorno in cui è stato male, alla corsa in ospedale, alla paura di non rivederlo più, al sollievo di abbracciarlo ancora anche se in quelle condizioni, alla consapevolezza che nulla sarebbe stato più come prima, al tentativo di riportarlo a casa, di occuparsi di lui, all’inevitabile resa di fronte all’evidenza, alla dolorosa decisione di portarlo in quella clinica, ai giorni che sono seguiti. Da quando Agostino è in quella stanza, da sette lunghi anni, Isora è andata da lui ogni giorno, due volte al giorno. Mattina e sera, estate e inverno, gioia e dolore, salute e malattia, tutti i giorni della sua vita.
Mentre ripone i pigiama puliti nell’armadio e con la mente vaga ancora nei ricordi, la porta della stanza si apre con una forza insolente, lasciando entrare il direttore della clinica e il suo piccolo contabile. Neanche un saluto, il direttore le parla sottovoce, ma dal livore negli occhi è come se gridasse. Dice che la situazione è ormai insostenibile, che sono insolventi da tre mesi e che il regolamento parla chiaro: o troverà il modo di saldare le pendenze o Agostino dovrà lasciare la struttura. Isora cerca di spiegare, pronuncia parole consumate, logore. Ripete, ancora una volta, che loro hanno solo una pensione, quella minima di Agostino, che le spese sono troppe, che non riesce a fare fronte a tutto, ha già venduto tutto quello che poteva, che aspettano risposte per l’assistenza sanitaria. Chiede di avere pazienza, comprensione, pietà. Il direttore è un muro, anzi uno specchio che rimanda indietro impietoso il riflesso della disperazione. Il piccolo contabile scuote la testa con finta comprensione. Una pessima messinscena. Escono dalla stanza ripetendo che non potranno accettare ulteriori ritardi. Nella penombra, resta solo il silenzio della realtà.
Agostino apre gli occhi, lei sussulta, trasalisce. Era sveglio, ha sentito tutto.
Lui le fa cenno di avvicinarsi, lei si siede sul letto, avvicina mestamente l’orecchio alle sue labbra. Nel silenzio Agostino parla, con un flebile filo di voce, lentamente, a lungo. Quando finisce, Isora chiude gli occhi, resta immobile, le parole appena sentite risuonano come eco, per un un momento che sembra durare un’eternità. Una lacrima le scivola lungo il viso, poi si alza, decisa, determinata. La bocca di Agostino si apre in una smorfia che sembra un amaro sorriso.
Isora scosta le coperte, aiuta Agostino a vestirsi, a fatica lo fa sedere sulla sedia a rotelle, escono in corridoio, passano davanti all’indifferenza servile di Gerardo, superano la porta a vetri, attraversano il parcheggio, salgono sull’auto. Agostino la osserva con malinconia.
Per la prima volta dopo un tempo che non riescono a ricordare Isora e Agostino sono di nuovo in macchina insieme.
Ora viaggiano, seguono la strada in silenzio. Svoltano a sinistra e prendono verso la campagna. L’asfalto taglia i campi come una ferita.
Al fondo della strada il ponte sul canale, in cima alla salita. Isora accelera, sempre più a fondo. Il motore va su di giri. L’auto corre, veloce. Il ponte è a pochi metri. Agostino le prende la mano. Lei la stringe, poi lascia il volante. Le ruote scartano a destra.
Isora e Agostino chiudono gli occhi, mentre la macchina sfonda una fila di alberi e precipita, oltre, nel sordo rumore di un sogno che si infrange, della sconfitta più grande, della scelta più difficile, dell’addio.

Luciano è appoggiato al parapetto del ponte. Pesca, come tutte le mattine. Da pochi mesi è finalmente andato in pensione e può fare quello che ama e aspetta da tempo, nel silenzio e nella pace dei canali di campagna.
Luciano sente il rumore del motore, lo sente avvicinarsi da lontano. Si volta e vede la persona al volante alzare le mani e sterzare bruscamente verso destra. L’auto sparisce per qualche istante alla sua vista, poi la vede spezzare la vegetazione sulla sponda e volare in avanti, come in un’irreale scena da telefilm americano. In quel punto la scarpata è ripida e profonda, ma la macchina finisce contro i folti rami di un grande albero, che ne blocca e attutisce il peso e lo slancio, piegandosi e rompendosi in diversi punti. L’auto si gira su un fianco e poi cade ribaltandosi in mezzo al letto del fiume.
L’acqua è bassa, ma scorre rapida. Dalla macchina esce un denso fumo nero.
Luciano è pietrificato, incredulo, spaventato. Ma agisce. Getta a terra la canna da pesca e cerca il telefono. Chiama subito i soccorsi. Nella concitazione del momento dice alla voce che lo sta ascoltando e registrando che una macchina si è gettata nel fiume.
Non bada alle sfumature delle parole, al loro peso. Luciano dice quello che ha visto. E spera. Spera che se qualcuno in quell’auto è ancora vivo, forse, possa essere salvato.

Sono vivi. L’urlo del pompiere lacera il silenzio vibrante d’attesa. Seguono le grida concitate degli altri soccorritori, mentre procedono con le operazioni di salvataggio. Con delle funi mettono in sicurezza l’auto, poi estraggono Agostino e Isora, adagiandoli sulle barelle. Dall’alto del ponte Luciano osserva la scena. Le macchine della polizia e dei vigili hanno bloccato la strada su entrambi i lati. Solo lui è potuto restare all’interno del perimetro delimitato. Due ambulanze aspettano, motori accesi. Una decina di curiosi osservano dai cordoni del posto di blocco, cercando di gettare lo sguardo verso il fiume. Un fotografo della stampa locale, accorso sul luogo dell’incidente, si è spinto fino al limitare degli alberi sulla sponda e si affaccia pericolosamente per fare qualche scatto.
L’acqua continua a scorrere, lunghe nuvole affusolate percorrono il cielo.
I pompieri agganciano le barelle a dei cavi e le sollevano fino al ponte. Tutti restano con il fiato sospeso. I minuti scorrono densi.
Quando raggiungono la cima del ponte e vengono spostati su altre barelle, Isora e Agostino incrociano lo sguardo. Occhi vecchi, stanchi, rassegnati, che piangono.
Gli infermieri chiudono i portelloni, gli autisti sgommano, le ambulanze se ne vanno, a sirene spiegate.
Un applauso parte spontaneo, rimbomba fragoroso e potente. Tutti sono felici, tutti sono sollevati, tutti battono le mani orgogliosi. Due vite sono state salvate.
Il destino è dalla loro parte. Così sembra, almeno.

Agostino muore un mese dopo, per una letale catena di complicazioni dovute alla sua malattia, indipendenti dall’incidente.
Una settimana dopo la caduta nel fiume, ancora in ospedale per le ferite riportate, Isora viene interrogata dalla polizia. Nei giorni successivi le comunicano l’apertura di un’indagine e di un procedimento giudiziario nei suoi confronti. L’accusa è “tentato omicidio di consenziente”. Isora aspetta il processo in silenzio. Lo stesso silenzio in cui sprofonda inesorabile quando Agostino si spegne e la lascia per sempre. Il giorno del funerale di suo marito, Isora è sola. Nessuna cerimonia, nessun corteo funebre, nessuna condoglianza. Un addio privato. Triste. Doloroso. Definitivo.
Due settimane dopo la morte di Agostino, Isora è chiamata a processo.
Avvocati, giudici, testimoni. Tutti parlano di una vita, la sua, che non le appartiene più.
L’unica voce che si dovrebbe ascoltare è quella di Agostino, ma lui non può più parlare. E Isora non ha più niente da dire, non ha voce, non ha fiato.
Il consenso di Agostino non può più essere provato. I giudici si ritirano per deliberare.
La sentenza è proclamata: colpevole.
Isora è condannata a quattro anni e otto mesi, con le attenuanti prevalenti sulle aggravanti.
Arresti domiciliari. Libertà vigilata.

La sveglia suona, ogni giorno, alla stessa ora in cui l’aveva fissata Agostino.
Isora guarda, oltre la finestra, la nebbia mattutina e aspetta il giorno in cui non dovrà più farlo. Il giorno in cui non dovrà più alzarsi e scostare le tende della finestra. Il giorno in cui non dovrà più alzarsi.
Non fa altro, ormai.
Isora aspetta.
Agostino la aspetta.


***Liberamente ispirato ad una storia vera***

giovedì 13 ottobre 2011

Nelle finite sfumature del grigio

Ogni volta che suonavamo, lei c’era, confusa tra la gente, a guardare verso il palco. Dai locali fumosi di periferia ai torridi concerti delle sere d’estate, ogni volta, riuscivo a vedere il viola dei suoi occhi brillare nel vortice indistinto del pubblico. Le cose stavano andando bene, dopo la recensione che aveva definito il nostro EP di debutto “il disco che farebbe Springsteen se avesse trent’anni oggi e nessun futuro all’orizzonte”. Nessuno aveva capito cosa significasse, neanche noi, ma aveva funzionato. Non eravamo famosi, non facevamo soldi, ma le date andavano esaurite e suonare per tutte quelle persone era nuovo ed eccitante. Una sera, dopo il concerto, l’avevo raggiunta al bar e mi ero presentato. Eravamo usciti a bere, seduti sul marciapiede davanti al locale, mentre il pubblico, lentamente, tornava a casa. Visti da vicino, i suoi occhi avevano il colore viola dei tramonti d’inverno. Avevamo vagato tutta la notte, perdendoci nelle strade buie della città, parlando, fumando, lasciandoci liberi. L’aria dell’autunno era curiosa e pungente, si infilava sotto i vestiti e graffiava la pelle. Noi la sfidavamo con il coraggio e l’incoscienza di chi sta per cominciare un viaggio. Le avevo raccontato del mio lavoro alla fabbrica di vernici, della speranza di vivere di sola musica, di cosa voglia dire crescere orfano nella periferia di una città, di come si possa trovare una famiglia in tre ragazzi di strada, del garage in cui avevamo trovato il nostro suono, un mondo anche per noi. Lei mi aveva portato nella sua vita, mi aveva parlato della sua famiglia numerosa ma distante, del fallimento del negozio di suo padre, delle notti passate a studiare dopo interminabili giornate di lavoro, delle supplenze in attesa di un posto da insegnante di letteratura, del manoscritto carico di desideri riposto nel cassetto. Guardandomi negli occhi mi aveva chiesto: cosa faresti se non avessi paura? Senza aspettare la mia risposta, si era avvicinata al mio orecchio, le mani chiuse intorno alla bocca. Qualunque cosa sia, aveva sussurrato, falla.
Alle prime luci dell’alba ero innamorato di lei di un amore che credevo esistesse solo nelle canzoni, nei libri, nei sogni.
Pochi mesi dopo, con i cuori gettati nell’anno nuovo, eravamo già una coppia, stavamo insieme. Mi piaceva tutto di lei. Il modo in cui viveva, il modo in cui viveva me, come mi faceva vivere. Amavo ogni sua grandezza e impazzivo per quelle piccole cose che la rendevano unica. Il modo vezzoso di fingersi offesa, chiudendo gli occhi e alzando le sopracciglia. La cicatrice che vedevo solo io. Come stringeva i pugni, quando era felice.
E felici lo eravamo veramente. Era bello stare bene.
A metà giugno l’etichetta discografica ci aveva convocati per darci un importante annuncio. Ci avevano fatto sedere su un divano e ci avevano spiegato che, grazie ad un accordo con una major e uno sponsor generoso, avrebbero organizzato un tour promozionale in alcune città in giro per il mondo e che volevano ne facessimo parte. Le nostre espressioni dovevano essere abbastanza eloquenti perché non avevano neanche aspettato la risposta e ci avevano posato penna e contratto davanti. Per correttezza, come se per noi cambiasse qualcosa, ci avevano informato che l’ultimo posto disponibile era stato inizialmente proposto ad un rapper, che però la settimana prima era stato arrestato per aggressione. Avevano pensato a noi per sostituirlo e non per affinità artistica, evidentemente. Non ci importava, eravamo solo grati, all’etichetta, alla major, al rapper, alla fortuna che ci regalava un’opportunità simile. Avremmo fatto cinque date, alla fine dell’estate, aprendo i concerti con una manciata di canzoni. Saremmo stati via poco più di una settimana, volando da una città all’altra, su e giù da furgoni e palchi, fuori e dentro camere d’albergo e sale d’attesa. Avevamo passato i mesi successivi ad aspettare, trepidanti, ansiosi, spaventati ed eccitati. Non conoscevamo neanche l’itinerario e le città in cui avremmo suonato. Ci bastava partire. La sorte era dalla nostra, ne avevamo avuto conferma quando ci avevano avvertito che potevamo portare con noi le nostre compagne, se volevamo. Una cosa così non si era mai vista nella storia della musica. Neanche i più grandi avevano avuto un’occasione simile. Avevamo paura fosse tutto uno scherzo e che all’ultimo non se ne sarebbe fatto niente. Invece all’inizio di settembre eravamo saliti sul primo aereo e decollati nel sogno che si avverava. E lei era con noi, seduta di fianco a me, a guardare le nuvole dall’alto, con i suoi occhi viola.
Forse le rockstar, ad un certo punto della loro carriera, finivano per non sopportare quella vita, ma noi non chiedevamo altro. Volavamo nel sole della mattina, dall’aeroporto un furgone ci portava direttamente al soundcheck, dopo le prove avevamo qualche ora per assaporare le città, suonavamo per primi e vivevamo la notte, dopo il concerto, fino all’ultima scintilla di energia. Prima dell’ultima data ci avevano detto che avremmo avuto una giornata intera a disposizione. Non volevamo perderne neanche un secondo.
Quella mattina avevo aperto gli occhi presto, lei mi dormiva addosso, sentivo il suo respiro sul collo e, prima di svegliarla, ero rimasto ad ascoltarla dormire.
Gli altri ci aspettavano in strada. Avevamo camminato verso sud. Era una giornata meravigliosa, era martedì, il cielo era limpido e pieno di sole. Eravamo arrivati alla punta estrema, dove si vedeva il mare. Tutti quanti volevano salire a guardare la città dall’alto, ma io avevo deciso di non seguirli. C’era qualcosa che sognavo di vedere fin da bambino e volevo gustarmelo fino in fondo. Li avevo guardati andare via e poi mi ero appoggiato al parapetto. Avevo acceso una sigaretta e gettato il fumo nell’aria del mattino.
In quel momento avevo ringraziato il destino.
Per essere lì, con loro, con lei.
Per quella giornata. Per quella città.
Era l’11 settembre del 2001. Era New York.

Quando alle 8:46 il primo aereo aveva colpito la torre nord del World Trade Center, stavo guardando la Statua della Libertà dal Battery Park. L’istinto mi aveva fatto gettare a terra, ma un attimo dopo guardavo verso l’alto, fiamme e fumo uscivano dal vetro brillante di sole. Avevo cominciato a correre, prima piano, con la testa al grattacielo, poi sempre più veloce, con il cuore fermo, la paura nel sangue, il terrore. Perché lei era lì, tutti quanti loro erano diretti lassù. Le strade, prima assalite dal traffico caotico della mattina, parevano congelate, immobili. La gente guardava verso l’alto, con le mani sulla bocca, le borse del lavoro gettate a terra. Io correvo, senza sapere dove andare. C’erano persone che scappavano, altre che mi sembravano andare verso le torri. Cercavo di seguirle. Le sirene gridavano sempre più vicine. Il rumore della città spariva nel dolore dei suoni spaventosi che venivano dal grattacielo colpito. L’odore della paura riempiva l’aria. Un taxi mi aveva quasi investito, salendo sul marciapiede. Avevo svoltato un angolo e le torri erano davanti a me. Il fuoco era di un colore che non avevo mai visto. Fogli di carta volavano ovunque. Gli specchi del grattacielo sembravano sciogliersi. Ovunque c’era caos e silenzio. Urla e fiato sospeso. Movimento e immobilità. Sembrava di poter sentire ogni cuore battere il ritmo della paura e dello stupore, il lento incedere della consapevolezza della tragedia. Io non riuscivo neanche a vedere cosa avevo intorno, l’unica cosa che volevo vedere era lei, vicino a me, in salvo. Avevo preso il telefono e lo avevo acceso. Le dita erano come di pietra. Non sapevo neanche se avrebbe funzionato, ma avevo composto il suo numero, poi quello degli altri. Nessun segnale, nessuna risposta. Niente. Il display del telefono segnava le 9:03.
Prima del rumore dell’aereo erano arrivate le grida assordanti di chi lo aveva visto avvicinarsi. Poi il rombo acuto di motori fuori rotta, il fischio allarmante dell’aria tagliata, come un lamento. Il tempo di alzare la testa, di scatto, per vedere l’enorme Boeing della United Airlines schiantarsi contro la torre sud ed esplodere in un inferno di fuoco e detriti, di morte e fumo nero come la notte. Intorno a me tutti scappavano, solo io restavo bloccato. Inerme. Fino a quel momento non avevo capito cosa stesse succedendo, credevo si trattasse di un incidente, volevo solo ritrovarla e tenerla tra le braccia, portarla al sicuro. Poi avevo visto la cattiveria assoluta, la malvagità, l’odio, nell’impietosa virata di quell’aereo lanciato a morte contro il mondo. E con il corpo, mi si era bloccato anche il cuore.
Ero rimasto così, fermo, immobile, con tutti i colori del male a balenarmi negli occhi, per non so quanto tempo, fino a quando un poliziotto mi aveva gridato in faccia di muovermi, spingendomi via. Avevo cominciato a correre, veloce e stavo ancora scappando quando la torre sud era crollata su se stessa con il suo carico di vite perdute, per sempre. Una donna anziana guardava in cielo, inginocchiata a terra, lungo la strada. Pregava, un rosario sgranato tra le mani. L’avevo alzata di forza e portata via. Pregare non le avrebbe aperto una strada nella polvere grigia che avanzava, come tempesta, a oscurare il sole e il futuro. Le sirene della polizia e dei vigili del fuoco erano assordanti, i cani abbaiavano, la città intera gridava. Non vedevo niente, correvo e basta. Tutto era grigio. Non mi ero più fermato. Una corsa angosciata, la mia, alimentata da un anelito aggrappato alla disperazione ed alla speranza. Ci saremmo ritrovati in albergo, mi dicevo, come quando, semplicemente, ci si perde. Era quello il mio pensiero, quella la verità di cui volevo ostinatamente convincermi.
Avevo aspettato, in quelle prime ore, nella hall di ingresso, attonito di fronte alle immagini trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo. Sarebbe arrivata, da un momento all’altro, seguita dai miei amici. Non desideravo altro. Avevo fissato la porta della stanza per ore, per giorni interi. Un’interminabile, atroce, sequenza di secondi sospesi nell’attesa. In silenzio, da solo, con la polvere negli occhi come un triste presagio, avevo aspettato, ma lei non era tornata. Mai più nessuno era tornato.

Non accadde subito. Prima ci furono le chiamate ai parenti a casa, il ritrovamento e poi il riconoscimento dei corpi, il ritorno a casa, i funerali, gli abbracci di persone sconosciute, le canzoni di addio, le lacrime che non finivano mai, fino a quando non finirono anche quelle e non rimase che l’assenza. La scomparsa di ogni abitudine, della vita per come l’avevo conosciuta. Il vuoto assoluto, fuori e dentro. I giorni di sollievo, per essere ancora vivo. Le notti di colpa, per lo stesso motivo.
Poi, una mattina, mi svegliai presto. Mi faceva male la testa, avevo freddo. Uscii dal buio della stanza, aprii gli occhi e la mia vita crollò ancora una volta.
Ogni colore era sparito. Tutto quello che vedevo era in bianco e nero. Ogni cosa aveva perso la sua tinta. Il rosso laccato del frigorifero, il verde della mele sul tavolo, l’azzurro del pacchetto di sigarette, il blu della mia maglia. Tutto era in bianco e nero.
Mi spaventai. Mi tremavano le gambe, era assurdo. Guardai fuori dalla finestra. Nessun colore. Le strade, i palazzi, le auto, il cielo. Niente.
Ero terrorizzato. Pensai di avere un’allucinazione, forse stavo sognando, un incubo reale come la paura più vera. Provai a chiudere gli occhi e a riaprirli. A tenerli chiusi sempre più a lungo, ma non serviva. Tornai a letto, forse dovevo dormire, dimenticare, svegliarmi di nuovo e rendermi conto che era tutto troppo insensato per essere possibile. Rimasi immobile, al buio, con gli occhi spalancati. Non c’era verso di dormire, il panico mi scorreva velenoso nelle vene. Tornai alla luce, trovai il telefono, chiamai il medico. Lo aspettai a casa, per ore, seduto in un angolo, una sola prospettiva a disposizione del mio sguardo, per cacciare via la paranoia, il fantasma della follia. Il medico mi fece sdraiare sul letto, prima ancora di lasciarmi parlare e mi diede qualcosa per calmarmi. Dovevo averlo spaventato. Dopo avermi ascoltato e osservato decise di portarmi in ospedale per fare esami più approfonditi. Dal modo in cui mi parlava, dal suo sguardo velato di ombre grigie, preoccupato e allo stesso tempo mestamente rassegnato, capii che in qualche modo aveva già fatto la sua diagnosi. Pazzia.
Un’ambulanza mi portò in ospedale dove, nel corso delle settimane successive, venni visitato da ogni tipo di dottore: oculisti, neurologi, psicologi. Fecero esami, domande, analisi, confronti, mandarono gli esiti a colleghi e luminari, studiarono il caso a fondo. Non potevano escludere che dicessi la verità, ma i risultati degli esami non confermavano nulla. Esiste una sindrome chiamata acromatopsia che indica l’incapacità totale di percepire qualunque colore e che si manifesta in diversi modi e forme. Io non presentavo nessuno dei sintomi, se non la mia completa incapacità di vedere i colori. Nessun medico poté diagnosticarmi l’acromatopsia né qualsiasi altra malattia. Così, un giorno, il primario mi comunicò che sarei stato dimesso. Non avevo niente, sarebbe passato. Il suo problema, mi disse: stress post traumatico.
Raccolsi le mie cose e tornai alla mia vita, a quei brandelli scoloriti che ne erano rimasti, sopravvissuti come reduci di guerra, abbandonati, incapaci di stare al mondo. E se forse conservavo ancora qualche flebile speranza di recuperarla, dovetti presto rinunciare anche a quella. Il lavoro alla fabbrica di vernici era ormai un beffardo scherzo del destino. Lo lasciai. Il solo pensiero di suonare, il mio sogno, la mia unica ragione di vita, mi uccideva. La musica era come un cancro che mi divorava da dentro, nutrendosi di ricordi, lasciando vuoti enormi, buchi neri voraci e incolmabili. L’assenza di colore era una marea che trascinava via ogni cosa. Il cibo non aveva più gusto, i profumi sparirono. Il giorno, la notte, lo scorrere del tempo erano solo un cambiamento di luce, una diversa percezione della stessa, desolante, tonalità. Vivevo in uno scadente film del passato, in una graffiata pellicola in bianco e nero rovinata dagli anni. Il mondo in cui mi trascinavo era solo una fotocopia sbiadita dell’originale. Un deserto acromatico, un labirinto pallido. Imprigionato, tra il nero che tutto racchiude e il bianco che tutto cancella. Ero perso, smarrito, nelle finite sfumature del grigio.
Ovunque, dalla strada alla televisione, non facevano che parlare della tragedia dell’11 settembre, di come il mondo fosse cambiato, stravolto, per sempre. Parlavano. Parole. Io non potevo ascoltare. Non potevo ascoltare neanche il respiro tra una parola e l’altra. Non riuscivo. Rimasi chiuso in casa. Lontano da tutto, isolato. Mi mancava lei. Mi mancavano tutti. L’assenza era la mia unica compagna. L’unica compagnia nella solitudine e l’unico feroce pensiero.
Lentamente, faticosamente, i giorni diventarono settimane e poi mesi, fino a quando non decisi di uscire. Viaggiavo in macchina, di notte, con il braccio fuori dal finestrino per accarezzare la strada, in silenzio, senza meta. Più chilometri percorrevo, più asfalto mi lasciavo scorrere sotto e più forte si faceva strada in me un’idea semplice e potente: farla finita. Senza giri di parole, uccidermi, liberarmi di una vita privata con forza e cattiveria di tutto quello per cui valeva la pena viverla. L’amore, l’amicizia, i sogni. Il colore.
La domanda era: cosa faresti se non avessi paura? La mia risposta era sempre e solo una.
Armato di tali pensieri, una mattina, alle prime luci dell’alba, arrivai sul mare. Avevo guidato tutta la notte. Mi incamminai sul molo, verso sud. Il mare era in tempesta, all’orizzonte il grigio del cielo era scuro. Guardai la violenza delle onde con brama, le alte scogliere che si estendevano a occidente, il lungo salto nel vuoto che offrivano, con desiderio. Chiusi gli occhi per trovare la forza che mi serviva. Sentii delle voci, alle spalle, una risata di bambina. Una famiglia si avvicinava. Tornai a guardare il mare. La bambina arrivò di corsa, si arrampicò sulla base di un lampione, puntando il dito verso il largo. Il vento le agitava i capelli, sembrava bionda. Era felice, si voltò a sorridermi.
La guardai, la vidi.
E i suoi occhi, i suoi occhi erano viola.
Le andai incontro. Viola. Mi inginocchiai di fronte a lei. Viola. Le presi le spalle, la tenni vicino, la strinsi forte. Viola. Viola. Viola. I genitori arrivarono di corsa a portarla via, il padre mi spinse a terra. Si allontanarono velocemente. La bambina mi guardò ancora una volta. Viola.
Presi una camera in albergo, di fronte al mare. Quella notte piansi tutte le lacrime che non ero stato capace di piangere da quel dannato giorno di settembre. Il colore viola di quello sguardo mi bruciava negli occhi. Piansi fino a sfinirmi, fino a cadere in un sonno profondo.
Quando mi svegliai il cuscino era imbrattato di nero e grigio, colato sulla federa, fino alle lenzuola. Mi alzai nel buio, le gambe tremavano, aprii la finestra con l’ansia di un bambino al primo sguardo sul mondo. Guardai fuori e vidi il mare. Il mare blu.

Da quel giorno, i colori sono tornati nella mia vita, adagio, come una continua scoperta, una dura riconquista quotidiana di territori che credevo perduti per sempre. Come un timido pittore aggiungevo tinte alla mia tavolozza dipingendo l’esistenza, un pezzo alla volta. Se toccavo una foglia si colorava di verde, la birra bevuta diventava gialla, il sole all’alba si sfumava di rosso, il grigio lasciava spazio al rosa, all’arancione, al marrone, all’azzurro. Ci sono voluti anni interi per ritrovarli tutti, per riappropriarmi di ogni gradazione possibile, di ogni frammento dello spettro visibile.
Oggi ogni colore è tornato al suo posto, ma non completamente. A volte vedo ancora delle cose in bianco e nero. Capita di rado e in occasioni particolari.
Una volta un camion senza colori mi è passato di fronte a un incrocio, due semafori dopo aveva provocato un terribile incidente. Un vicino di casa è stato ucciso in una rapina, da giorni lo vedevo in bianco e nero. Il ponte sul fiume che, anche dopo essere stato ridipinto, ai miei occhi restava grigio spento, ieri è crollato. E come queste, molte altre volte in cui, dove non c’era colore, trovavo morte, dolore, sconfitta, tragedia.
Ora credo di avere capito. Io percepisco il male, prima che si manifesti.
Lo vedo, nelle finite sfumature del grigio.
E non so ancora se sia un dono da sfruttare o una maledizione da cui fuggire. Lo scoprirò. In ogni caso, questa è la mia storia. Il mio destino.
Penso sempre a lei, mi manca. Adesso vorrei che fosse qui e che, guardandomi negli occhi, mi domandasse: cosa faresti se non avessi paura?
Vivere, sarebbe la mia risposta.

mercoledì 7 settembre 2011

90210. Dialogo sui massimi sistemi generazionali

- Beverly Hills 90210. Te lo ricordi?
- Sì.
- E allora?
- Allora cosa?
- Allora voglio sapere dove stavi. Voglio sapere se lo guardavi oppure se lo guardavi e poi però dicevi che era una stronzata.
- Io…lo guardavo…e basta.
- E…
- Ed era una stronzata.
- Ah.
- Ma dai, è vero. Ho guardato le prime due o tre serie. Poi basta, sono passato ad altro.
- Certo, pure io. Anche se…
- Cosa?
- Ho rivisto quelle prime serie e ti dirò…
- È bello?
- È una stronzata. Ma ho provato a guardarlo con prospettiva, con profondità storica. E insomma, aveva una sua dignità artistica in fondo. C’erano i personaggi, qualche storia, dinamiche interne, percorsi di formazione, c’era la fotografia di un periodo storico, c’erano anche onesti tentativi di affrontare tematiche importanti, questioni sociali, generazionali, di trasmettere messaggi. Certo, con luci ed ombre.
- Chiaroscuri.
- Già, sfumature fastidiose. Elementi disturbanti.
- Tipo?
- Partiamo dall’inizio: ci sono due gemelli, Brandon e Brenda, che non si assomigliano un cazzo. Ma proprio niente. Giusto i nomi.
- Saranno eterozigoti.
- No no, secondo me è che gli zigoti hanno proprio litigato. Comunque, Brandon e Brenda si trasferiscono a Beverly Hills con il papà pelato e la mamma alta, ma sono tristi perché hanno lasciato i loro amici in Minnesota e non sanno se si troveranno bene.
- A Beverly Hills?
- Appunto! Ma andiamo avanti: Brandon e Brenda vanno a scuola, una specie di villaggio turistico con i portici, i prati e le palme, che in confronto il mio liceo sembrava Beirut dopo i bombardamenti. Vanno a scuola e incontrano quelli che diventeranno i loro nuovi amici. C’è Kelly, la più bella della scuola, un po’ mignotta, che è triste perché tutti la credono un po’ mignotta. C’è Steve, il ricciolino biondo con il fisico, che sembra divertirsi sempre ma in realtà è triste perché è stato adottato. C’è Donna, la bionda bella di corpo e brutta di faccia, che è triste perché è un po’ rincoglionita. C’è Andrea, l’intelligentona che fa tutto lei, tristissima perché è l’unica povera e non se la caga nessuno. C’è David, il primino arrapato che vuole stare con i grandi e che è triste perché i grandi non lo vogliono. E poi c’è Dylan, che è figo e fa surf, ha un sacco di soldi, ma è triste perché i genitori si sono lasciati e lui vive da solo nell’attico di un hotel a venti stelle.
- Gente triste.
- Della serie “i soldi non fanno la felicità”.
- Sarà vero?
- A saperlo! Proverei volentieri. Però capisci che è fastidioso, voglio dire…è facile essere triste a Rodeo Drive con una Porche sotto il culo, prova a fare il bello e dannato sul 33 sbarrato a Collegno.
- Vero. E adesso che mi ci fai pensare mi viene in mente un’altra cosa.
- Dimmi.
- Allora, questi andavano a scuola, quindi avevano, non so, 16 o 17 anni?
- Più o meno.
- Solo che gli attori che li interpretavano ne avevano almeno venticinque. A me più che i personaggi mi sembravano i loro zii. Niente baffetti in crescita, niente acne violenta, niente pezzatura ormonale sotto le ascelle. Va bene che è fiction, capisco le esigenze di scena, ma l’adolescenza è spietata in tutto il mondo, oppure a Beverly Hills l’hanno condonata con le ville e i vialetti alberati?
- Sono questioni di scorrere naturale del tempo, non puoi ignorarle.
- No che non puoi. Cioè, io a quell’età mi scassavo di canne, ma come fai a sedici anni ad avere trascorsi di alcolismo? Cos’è…alle elementari ti riempivi di sambuca e picchiavi i compagni di classe con il cancellino della lavagna?
- Cazzo…deve essere dura crescere a Beverly Hills.
- Un vero casino.
- Però, scusami, dimmi una cosa: allora perché lo guardavamo?
- Cosa?
- Perché lo guardavamo? Perché ci piaceva?
- No…io lo guardavo e basta, ma non è che mi piaceva.
- Infatti, cioè…lo guardavamo tutte le sere ma non è che ci piaceva.
- No, dai, era una stronzata, mica ci poteva piacere.
- Ovvio. E poi se ci ricordiamo tutto è solo perché abbiamo buona memoria, mica perché ci piaceva.
- Infatti. A noi Beverly Hills 90210 non ci piaceva!
- Giusto!
- Già!

mercoledì 31 agosto 2011

Benvenuto nella giungla

La lunga estate del 1992 è appena cominciata. La scuola è finita. Ho superato l’esame di terza media, sono stato bravo, credo. Mi lascio alle spalle la vecchia scuola, il quartiere, i compagni di sempre, le corse per occupare il campo di calcio nell’intervallo, il buco nella recinzione per entrare di nascosto la domenica pomeriggio, le duemila lire di pizza bianca all’uscita, i pensieri leggeri, le incredibili avventure di un pomeriggio di pioggia. Un sacco di cose. Mi mancherà tutto questo, quanto mi mancherà? All’orizzonte il profilo sfocato delle scuole superiori, incerto e carico di presagi, affascinante e intrigante. Grandi cambiamenti sono in atto, nella mia giovane vita, gli implacabili ingranaggi del tempo si sono messi in moto e da settembre nulla sarà più come prima, mai più.
In questo momento però, in questa tiepida mattina del 27 giugno, nessun pensiero mi sfiora la mente, nessuna domanda, nessuno spazio al futuro prossimo, nessun dubbio, nessuna incertezza. La mia anima è sgombra, limpida e tersa, sintonizzata sulle giuste frequenze, alimentata dall’adrenalina, dall’entusiasmo, dalla frenesia dell’attesa.
Guarda bene, puoi vedermi, appoggiato alla ringhiera del balcone, nel primo sole del mattino, a godermi il profumo gentile di una giornata che aspetto da mesi. Eccomi qui, guardami, i jeans strappati al ginocchio, la stessa faccia da schiaffi, i capelli da rocker in cantiere, più corti davanti e lunghi sul collo, la bandana legata al polso, gli occhi ancora bianchi, i sogni ancora intatti, le gambe storte, un’ombra di barba, il cuore impavido.
Garda bene, riesci a vedermi? Sono felice.
Tengo tra le mani il mio biglietto, lo leggo ancora una volta: “Use Your Illusion World Tour 1992…GUNS N’ ROSES”. La carta è spessa, ruvida sulla dita. L’ho comprato con i soldi della busta di Natale, un venerdì pomeriggio di aprile. Pioveva. Il nome del gruppo è come se fosse uno specchio. Riflette. L’immagine è quella della copertina del disco, quella blu. Sono due filosofi, due pensatori. Un particolare di un quadro di Raffaello, lo hanno detto in un programma di Videomusic.
TORINO – STADIO DELLE ALPI. Sabato 27 giugno – Ore 17.00 – Apertura Porte Ore 13.00”. Ho imparato a memoria ogni frammento di quel biglietto, conosco anche il numero seriale di ingresso. Amo il mio biglietto del concerto. Lo amo così tanto che ho paura. Ho paura che quando lo strapperanno, quando lo strappatore di biglietti del concerto dei Guns lo prenderà per strapparlo, commetterà un errore, non presterà la necessaria attenzione, non seguirà la dentatura dello strappo, lo rovinerà. Sono preoccupato. Poi decido che il destino farò il suo corso, devo solo sperare nella meticolosità della strappatore di biglietti. Posso farcela.
Manca poco, è ora, sono teso, in confronto l’esame che ho appena sostenuto mi ha agitato come una partita di pinnacola con la nonna. Questa è tensione vera, questo è un distillato di panico ed eccitazione che cade, mese dopo mese, goccia a goccia, nel bicchiere che mi sto preparando a bere. Alla canna. Tutto d’un fiato.
Questi sono i Guns N’ Roses, a Torino, il primo concerto della mia vita, il primo vero, il primo da solo. Solo io e il rock, io e i Guns. E va bene, forse anche, non so, 59.900 e rotte altre persone, ma loro non hanno quel feeling, quell’intesa, quell’alchimia naturale che c’è tra me e i cinque ragazzi di L.A. Ne sono certo, mi dispiace, che gli altri se ne facciano una ragione.
Guardo l’ora, ancora venti minuti e passeranno a prendermi. In casa non resisto più. Prendo lo zaino, è pesante, non so neanche cosa ci ho messo dentro. Un ricambio, una bottiglia d’acqua, dei fazzoletti e un incudine, probabilmente.
Quando sono già sul pianerottolo, in attesa dell’ascensore, realizzo che forse è meglio se metto le scarpe. Le ciabatte non sono la calzatura più adatta, non stanno bene con i jeans.
Recupero le chiavi, già finite sepolte nel misterioso e gravoso contenuto dello zaino e rientro a infilare le scarpe.
Sul giornale di mio padre ho letto l’articolo che parlava del concerto: “per accedere al prato sono obbligatorie le scarpe da ginnastica”, diceva. “Perché?”, ho pensato, “esistono altri tipi di scarpa?”.
Giù in strada, la giornata sembra una come tante. Le solite buche del marciapiede, le scritte sui muri, le macchie di olio sull’asfalto, l’odore di periferia. Una signora bassa e grassa fuma una sigaretta lunga e sottile, alla fermata del bus. La pensilina è ancora rotta. Le pubblicità scollate. Il bus in ritardo. Un tizio taglia la via impennando sul suo Ciao truccato e dipinto di giallo. Il mio amico Gigi mi saluta da lontano, ha una converse rossa e una verde. La sua divisa. Vuol dire che oggi lavora.
Mentre aspetto, mi guardo riflesso nel portone di casa. Mi volto per guardarmi la schiena. Sulle spalle della mia maglia nera, il simbolo dei Guns N’ Roses: due pistole e due rose. Non molto originale, in effetti. Però c’è anche un sacco di sangue che cola e schizza dal proiettile che mi ha appena colpito. Sul retro del proiettile, argento e oro, è inciso il nome del gruppo. A me sembra una maglia cazzutissima, con le maniche arrotolate e una spilla da balia sul colletto.
Arrivano Davide e Renzo, sono in anticipo anche loro. Renzo ha rubato qualche sigaretta a sua madre. Sono delle MS lunghe e aromatizzate. Fanno schifo. Davide ha comprato cinque accendini. Per i pezzi lenti, perché ha paura che si consumino. Me ne faccio dare uno, ma lui ci resta male. Devo impegnarmi per convincerlo che con quattro accendini potrebbe farsi tutto il tour europeo.
Suona un clacson, ecco gli altri. Sul furgone di suo padre, ci sono Pierre, il portiere della mia squadra di calcio e Dodo, professione stopper. Ovviamente c’è anche il padre di Pierre, è quello che guida il furgone.
Ci sono cinque posti e noi siamo sei. Davide si siede nel cassone posteriore, lo vedo che armeggia con una fune per fissarsi alle pareti. Speriamo bene.
Pierre è francese da parte di madre, cioè sua madre è francese, suo padre è italiano, anche lui è italiano, ma con la madre francese. A dire il vero, non mi è del tutto chiaro questo quadro di parentele e nazionalità. Suo padre mi chiede: “I tuoi? Sono tranquilli?”. Rispondo di sì, immagino di sì. Mio padre è uscito in bici, mia madre è a fare la spesa al mercato. Prima di uscire mi hanno detto di stare attento, si sono raccomandati. Mio padre, a dire il vero, mi ha detto di non fare il cretino, ma io l’ho voluto interpretare come un premuroso e attento richiamo alla mia responsabilità. Che poi cosa puoi dire ad un figlio di 14 anni che va ad un concerto simile da solo? A lui: “fai il bravo”. A te stesso: “che Dio ci assista”. E considerato che i miei vecchi sono più atei di un frigorifero da campeggio o di un campo da bocce, non saprei se sentirmi rincuorato.
Scendiamo dal furgone dove la folla incomincia a farsi più fitta. Ci incamminiamo. Lo stadio sembra galleggiare come un’enorme zattera nel mare di gente che lo circonda. Fa caldo. Mi guardo intorno, osservo le persone che mi camminano intorno, quelle sedute per terra, che bevono birra e fumano. Un dubbio affiora con forza, ho la sensazione di essere un po’ fuori età. Non che mi senta piccolo, non sia mai. Mi sento, piuttosto, in anticipo.
Dopo venti metri mi accorgo che abbiamo già perso Davide. E questa cosa non va bene. Lo ritrovo che sta cercando di riprendere un accendino da sotto una macchina. Gli è caduto mentre controllava se li aveva ancora tutti. L’operazione di recupero è lunga e complicata, sotto il sole cocente, con la complicazione che l’auto è appena stata parcheggiata e ogni componente scotta come la lava. Guardo la targa, arriva da Bologna. Appunto. Vorrei lasciar perdere ma mi rendo conto che per qualche ignoto motivo questi maledetti accendini sono molto importanti per lui. Magari ha dimenticato il biglietto, non mi stupirei, ma gli accendini sono la cosa a cui, oggi, tiene di più. E non fuma neanche. E ha solo due mani. E farà buio tra otto ore. E non c’è molto altro da dire, ma lo aiuto comunque, perché è un mio amico e perché se non la smette lo uccido.
Quando raggiungiamo gli altri, davanti agli ingressi, gli altri si sono ridotti al solo Renzo. Pierre e Dodo se ne sono andati. Non ho voglia di chiedermi perché. L’appuntamento per il ritorno è dove siamo arrivati. Facile. Spero.
Ci sediamo ad aspettare che aprano i cancelli. Sento l’ansia crescere nello stomaco, manca davvero poco. E quando dico poco intendo un quarto d’ora all’apertura, quattro ore all’inizio dei gruppi di spalla e sette ore ai Guns. “Aiuto” – penso – “una cazzo di eternità!”. Moriremo sciolti dal sole e dall’attesa. Sento l’asfalto inghiottirmi. La pelle liquefarsi. Le forze abbandonarmi. Bisogna fare qualcosa.
“Hai portato la birra?” – chiedo a Renzo. Lui mi risponde con un sorriso sprezzante, da uomo di mondo, da lupo di mare, da cowboy della prateria. “Certo” – sibila, mentre tira fuori dallo zaino tre lattine di una marca che non ho mai visto. Ce le lancia. Davide si prende la sua sulla spalla, io fermo la mia a un centimetro dal naso. Sono calde. Quando la apro quasi esplode, devo tenerla come fosse un idrante. Fortuna che non bagno il tizio che mi sta di fianco, dal modo in cui mi guarda capisco che non avrebbe apprezzato. Renzo sfila una sigaretta dalla tasca. “Non c’è niente di meglio, con la birra”, sentenzia, con il solito sorriso da Steve McQueen.
“Dave hai da accendere?”. “No”. “Come no?”. “Mi servono dopo”. Passo a Renzo il mio accendino e interrompo una conversazione che stava già per uccidermi.
Beviamo una birra calda e fumiamo una sigaretta scadente sotto il sole. A stomaco vuoto. A cervello spento. A cuore gonfio. E a nervi tesi. Per fortuna aprono i cancelli quando la testa comincia a girare e la pancia a lamentarsi. Non c’è tempo per stare male, si va.
Ci lasciamo trasportare dalla folla nella pancia dello stadio, lo zaino appeso davanti per paura che qualcuno rubi l’incudine, il biglietto già posizionato nel modo studiato per aiutare lo strappatore di biglietti a non fare danni, nell’aria l’odore acre di panini unti e sudore.
Non so come, dieci minuti dopo, ci ritroviamo seduti nel secondo anello dello stadio. Non ho badato alla strada, controllavo le condizioni del biglietto. Sembra integro, buon lavoro strappatore!
Quando dopo quattro ore i Soundgarden salgono sul palco mi sembra che siano trascorsi quattro giorni. Guardare la gente riempire lo stadio e Davide fare le prove con gli accendini può essere divertente, per cinque minuti, ma poi lo sconforto e il desiderio di gettarsi sul primo anello rischiano di prendere il sopravvento. Ogni istinto suicida, comunque, svanisce in fretta nel muro di suono che arriva dal palco. I Soundgarden sono bravi e il cantante con i capelli lunghissimi ha una voce pazzesca. Suonano mezz’ora. Poi tocca ai Faith no more. Anche loro suonano alla grande e il pubblico incomincia a scaldarsi davvero. Quando fanno il pezzo famoso, quello con il video in cui il cantante ha i guantoni e rappa, quello in cui alla fine c’è un pesciolino che muore sulle note del pianoforte e poi il pianoforte esplode, la gente è carica e lo stadio tuona. Alle 19.30, quando manca mezz’ora, la folla freme: Guns and Roses…Guns and Roses. Il coro toglie il fiato. Non resisto più, devo muovermi, voglio scendere, andare in mezzo agli altri, più vicino al palco, sul prato. Sento una specie di senso di colpa, dopo tutta l’attesa, l’ansia, l’aspettativa, a restarmene seduto su quella seggiolina a duecento metri da Axl. Non esiste, mi dico. Andiamo. A convincere gli altri ci metto un minuto e siamo già sulle scale. Quando mettiamo piede sul prato, lo stadio esplode in un boato fragoroso. Alziamo la testa, non è per noi (lo ammetto, per un attimo ci ho pensato), le luci sono accese, il palco è pronto, gli strumenti aspettano, con le orecchie e i cuori di tutti, di essere presi, percossi e posseduti. Mi faccio strada tra la folla, spingo, scarto, scivolo, sgomito, mi insinuo, conquisto metri. Poi i Guns N’ Roses salgono sul palco e tutto si ferma, si interrompe, compresa la mia salivazione e l’ossigenazione del cervello. Attaccano con It’s so easy. Basso, batteria, chitarra, delirio. Axl è tutto vestito di bianco, con i pantaloncini stretti e la bandana rossa che lega i capelli. Slash ha una giacca sgualcita e agita i riccioli come un pazzo. Non stacco gli occhi dal palco, dagli schermi enormi che sono montati ai lati e che ci inondano di immagini frenetiche della band, delle coriste, del vortice di teste che si agita sotto di loro.
Davide e Renzo sono spariti, provo a cercarli, nessuna traccia, neanche la luce di un accendino o la puzza di MS. Pazienza. È il momento di Mr. Brownstone e di gridare “we been dancin’ with…Mr. Brownstone”. Non mi sembra vero, esserci, cantare, fare parte di quel momento, viverlo. Sono a metà del prato, voglio avvicinarmi ancora. Live and let die. Non è facile, ma proseguo, è una missione, la mia. Attitude. Ancora qualche passo, sono sudato marcio, ma sono fiero, sono vicinissimo e qui sembra esserci meno gente. Axl saluta il pubblico, corre come un pazzo, poi si ferma e dice il titolo della prossima canzone: Welcome to the jungle.
Slash fa correre l’elettricità sulle corde della chitarra e Axl è di fianco a lui, prende la voce e la lancia nel grido più graffiato della storia del rock.
Sono incantato, estasiato, assorto e non mi accorgo dello strano vuoto che si sta creando intorno a me, sento l’aria sulla pelle, respiro meglio, non ho spalle sudate addosso, ascelle minacciose da evitare, zaini in faccia, anfibi sui piedi. Mi sembra di essere solo. Un sogno. Un sogno dal quale mi sveglio. Un sogno dal quale mi sveglio quando il pezzo attacca nel riff. Un sogno dal quale mi sveglio, con la forza d'urto di un treno che si schianta su una montagna a tutta velocità.
Un muro di gente mi frana addosso, mi travolge, mi risucchia, mi mena, mi centrifuga. Non riesco a stare in piedi, lo zaino mi finisce sulla testa, metto le braccia in avanti e prendo una gomitata sulla schiena, ributto lo zaino all’indietro e qualcosa, credo un ginocchio, mi colpisce in pancia. Rimbalzo senza sosta da una spallata ad un’altra e per un momento, un brevissimo istante di lucidità, do un nome a quello che mi sta succedendo: pogo. E aggiungo un aggettivo: pogo violento.
Mi inciampo, non riesco a rialzarmi, striscio per terra e penso che sto per morire, quando mi sento afferrare e trascinare di forza per qualche metro.
Mi alzo e lo vedo. Sarà alto due metri, capelli lunghi, sudati, davanti agli occhi, barba, stivali, gilet di pelle su petto nudo, il braccio che mi tiene completamente tatuato, mille orecchini, una catena legata tra un orecchino e il naso. Davvero. Mi guarda serio. Sta per parlarmi e so che sarà una verità profonda e illuminante. Una lezione di vita. Una rinascita. Una rivelazione rock.
Poi si abbassa, mi fissa e dice: “levati dai coglioni…testa di cazzo!”.

Sono passati quasi vent’anni e ancora i ricordi di quel concerto respirano vividi nella mia memoria. Soprattutto ricordo lui, l’uomo con la catena, l’uomo che mi ha salvato la vita e che in un certo senso, con parole sue, mi ha accolto nel suo mondo e mi ha dato il benvenuto. 
Benvenuto nella giungla.





martedì 19 luglio 2011

Wanderlust

Fossi un artista contemporaneo, un designer, un artigiano concettuale, sapessi anche solo come farlo, realizzerei un libro a specchio. Ogni pagina, dalla copertina al dorso, dalla quarta alla sovracoperta, dovrebbe essere uno specchio, riflettere la tua immagine, i tuoi occhi che dalle pagine del libro si guardano attraverso. Nella tua mente l’effetto sarebbe quello di quando ti trovi in mezzo a due specchi e l’immagine si replica all’infinito e sembra che, laggiù, in fondo, ti entri dentro. E quando il solito critico d’arte con la puzza sotto il naso mi verrebbe a chiedere quale pretenzioso significato sotteso dovrebbe avere la mia opera, dopo uno sguardo di sottecchi (tra artisti e critici si usa così), risponderei che ogni libro è il riflesso di chi lo legge. Semplice.
Una volta, in un tramonto d’estate, tra i vigneti sulle colline della mia terra, ho sentito Paul Auster dire che il libro è l’unico luogo in cui due sconosciuti, l’autore e il lettore, possono incontrarsi in completa intimità. Vero Paul, hai ragione, ma ascoltami bene, dedicami un secondo del tuo tempo, posa la penna, guardami. Non pensi anche tu che le parole a cui dai corpo, le storie che regali al mondo, i personaggi che plasmi, siano tanto tuoi quanto miei? Quando leggi un libro, Paul, è di te che stai leggendo, solo di te. Sei tu che cammini tra le vie di New York, che voli sulla mongolfiera intorno al mondo, che risolvi il caso, che uccidi il drago, che muori all’ultima pagina. Sei tu Achab, è tuo quel ritratto che invecchia appeso al muro, tua è la vendetta, Edmond Dantès.
Non lo vedi lo specchio, caro Paul? Posso chiamarti Pauly? Non lo vedi lo specchio su ogni pagina?
Questo è un libro, per me, una superficie riflessa su me stesso, il riverbero senza vanità che getta luce sulle mie ombre, sulle strade poco illuminate della mia vita, su quegli angoli di mondo in cui non mi avventurerei mai, irraggiungibili, se non sulle ali della fantasia, attraverso la voce, la pelle, le storie di qualcun altro.
Leggevo un libro di Alex Roggero, “La corsa del levriero”. Alex è nato ad Alessandria, non lontano da dove ho sentito la voce di Paul Auster. Alex è uno scrittore, ovviamente. E soprattutto è un fotografo, eccezionale. La sua specialità è il reportage di viaggio e l’architettura roadside americana: stazioni di servizio, motel, tavole calde, un universo al neon, moderno, accattivante, geniale. Il paradiso del viaggiatore, l’epopea della frontiera, della strada, del sogno americano. Alla scoperta delle magnifiche stazioni art dèco costruite negli anni Trenta e Quaranta, Alex Roggero ha girato l’America, da Pittsburgh a Los Angeles, sui Greyhound, gli autobus del levriero, che ogni giorno trasportano migliaia di persone lungo le strade di un continente che ha fatto proprio della strada, del blacktop, il manto nero d’asfalto, il suo mito più profondo.
In appendice al racconto del viaggio in Greyhound ci sono due capitoli, il primo si chiama “Sterrati”. A pagina 115, ho trovato uno specchio, in una parola. In poche righe, sono finalmente riuscito a dare un nome ad una sensazione che mi accompagna da sempre.
Cito le parole di Alex: “Si chiama dromomania, la malattia che induce chi ne è afflitto a vagabondare senza mai fermarsi, spinto dall’abnorme, irrefrenabile impulso di rifuggire ogni sedentarietà. Ma gli americani preferiscono usare una parola meno arida, una parola splendida e intraducibile, per illustrare questa condizione: è wanderlust, termine composto da wander, vagabondare, e lust, ossessione, desiderio”.
Wanderlust. Che meraviglia, ho pensato. Eccola.
Per anni ho cercato il modo di spiegare il senso di irrequietezza, di agitazione, il vortice interiore, il richiamo al movimento che mi attanaglia nel profondo dell’anima, in alcuni momenti della mia vita. Senza motivo apparente, spesso. Per una vita intera ho cercato di dare un nome a quegli ululati nel petto, a quel desiderio irrefrenabile di andare, non importa dove e come. Solo andare.
E poi, wanderlust. Uno specchio, in una parola.
Forse ne farò un uso improprio. Cosa c’entro io, in fondo, con i vagabondi d’America? Con gli hobo, le highway, il west?
Ho solo letto un libro, è vero. Ma cosa si può chiedere di più ad un libro?
Ho dato un nome ad una parte di me che non sapevo come chiamare. Una parola.
E mi dispiace Jack London. Scusami Neal Cassady. Perdonami, se puoi, Jack Kerouac.
Ma quella parola è wanderlust.