martedì 19 luglio 2011

Wanderlust

Fossi un artista contemporaneo, un designer, un artigiano concettuale, sapessi anche solo come farlo, realizzerei un libro a specchio. Ogni pagina, dalla copertina al dorso, dalla quarta alla sovracoperta, dovrebbe essere uno specchio, riflettere la tua immagine, i tuoi occhi che dalle pagine del libro si guardano attraverso. Nella tua mente l’effetto sarebbe quello di quando ti trovi in mezzo a due specchi e l’immagine si replica all’infinito e sembra che, laggiù, in fondo, ti entri dentro. E quando il solito critico d’arte con la puzza sotto il naso mi verrebbe a chiedere quale pretenzioso significato sotteso dovrebbe avere la mia opera, dopo uno sguardo di sottecchi (tra artisti e critici si usa così), risponderei che ogni libro è il riflesso di chi lo legge. Semplice.
Una volta, in un tramonto d’estate, tra i vigneti sulle colline della mia terra, ho sentito Paul Auster dire che il libro è l’unico luogo in cui due sconosciuti, l’autore e il lettore, possono incontrarsi in completa intimità. Vero Paul, hai ragione, ma ascoltami bene, dedicami un secondo del tuo tempo, posa la penna, guardami. Non pensi anche tu che le parole a cui dai corpo, le storie che regali al mondo, i personaggi che plasmi, siano tanto tuoi quanto miei? Quando leggi un libro, Paul, è di te che stai leggendo, solo di te. Sei tu che cammini tra le vie di New York, che voli sulla mongolfiera intorno al mondo, che risolvi il caso, che uccidi il drago, che muori all’ultima pagina. Sei tu Achab, è tuo quel ritratto che invecchia appeso al muro, tua è la vendetta, Edmond Dantès.
Non lo vedi lo specchio, caro Paul? Posso chiamarti Pauly? Non lo vedi lo specchio su ogni pagina?
Questo è un libro, per me, una superficie riflessa su me stesso, il riverbero senza vanità che getta luce sulle mie ombre, sulle strade poco illuminate della mia vita, su quegli angoli di mondo in cui non mi avventurerei mai, irraggiungibili, se non sulle ali della fantasia, attraverso la voce, la pelle, le storie di qualcun altro.
Leggevo un libro di Alex Roggero, “La corsa del levriero”. Alex è nato ad Alessandria, non lontano da dove ho sentito la voce di Paul Auster. Alex è uno scrittore, ovviamente. E soprattutto è un fotografo, eccezionale. La sua specialità è il reportage di viaggio e l’architettura roadside americana: stazioni di servizio, motel, tavole calde, un universo al neon, moderno, accattivante, geniale. Il paradiso del viaggiatore, l’epopea della frontiera, della strada, del sogno americano. Alla scoperta delle magnifiche stazioni art dèco costruite negli anni Trenta e Quaranta, Alex Roggero ha girato l’America, da Pittsburgh a Los Angeles, sui Greyhound, gli autobus del levriero, che ogni giorno trasportano migliaia di persone lungo le strade di un continente che ha fatto proprio della strada, del blacktop, il manto nero d’asfalto, il suo mito più profondo.
In appendice al racconto del viaggio in Greyhound ci sono due capitoli, il primo si chiama “Sterrati”. A pagina 115, ho trovato uno specchio, in una parola. In poche righe, sono finalmente riuscito a dare un nome ad una sensazione che mi accompagna da sempre.
Cito le parole di Alex: “Si chiama dromomania, la malattia che induce chi ne è afflitto a vagabondare senza mai fermarsi, spinto dall’abnorme, irrefrenabile impulso di rifuggire ogni sedentarietà. Ma gli americani preferiscono usare una parola meno arida, una parola splendida e intraducibile, per illustrare questa condizione: è wanderlust, termine composto da wander, vagabondare, e lust, ossessione, desiderio”.
Wanderlust. Che meraviglia, ho pensato. Eccola.
Per anni ho cercato il modo di spiegare il senso di irrequietezza, di agitazione, il vortice interiore, il richiamo al movimento che mi attanaglia nel profondo dell’anima, in alcuni momenti della mia vita. Senza motivo apparente, spesso. Per una vita intera ho cercato di dare un nome a quegli ululati nel petto, a quel desiderio irrefrenabile di andare, non importa dove e come. Solo andare.
E poi, wanderlust. Uno specchio, in una parola.
Forse ne farò un uso improprio. Cosa c’entro io, in fondo, con i vagabondi d’America? Con gli hobo, le highway, il west?
Ho solo letto un libro, è vero. Ma cosa si può chiedere di più ad un libro?
Ho dato un nome ad una parte di me che non sapevo come chiamare. Una parola.
E mi dispiace Jack London. Scusami Neal Cassady. Perdonami, se puoi, Jack Kerouac.
Ma quella parola è wanderlust.

giovedì 14 luglio 2011

Periferie (all'inizio di qualcosa)

Il sole è ormai tramontato oltre il profilo irregolare delle montagne, sospinto dal vento freddo e tagliente che fende la città e sgombra il cielo. Ogni cosa brilla di una luce particolare. Raffiche violente e improvvise sferzano l’aria, piegano le cime degli alberi, caricano l’atmosfera di un’elettricità contagiosa e liberatoria. Tutto sembra più sincero, più vero.
Il neon che illumina la banchina del terzo binario è rotto e getta una luce intermittente, confusa e nervosa, sulle panchine vuote, sui carrelli per i bagagli abbandonati lungo il marciapiede e sui manifesti pubblicitari. Le pagine strappate di un vecchio giornale turbinano sulle rotaie e aspettano di farsi risucchiare dal vortice del treno in corsa che l’altoparlante ha appena annunciato. In una stazione di periferia sono pochi i treni che si fermano, per lo più passano sfrecciando e sferragliando, la attraversano con violenza e indifferenza, la tagliano in due lasciandosi dietro una lunga ferita di acciaio e cemento. Il sottopassaggio è chiuso, sbarrato da una rete metallica arrugginita e da un nastro segnaletico sfilacciato. Un foglio con il timbro della polizia ferroviaria vieta l’accesso ai non autorizzati, nessuna spiegazione per i curiosi, solo un intrigante mistero, una storia da scoprire, un buon inizio per un romanzo. Nell’aria niente rumori, solo il ronzio del neon e l’alito del vento.
Alzo il bavero della giacca e infilo le mani nelle tasche, prima di attraversare velocemente i binari verso l’atrio della stazione. La sala d’attesa è come la ricordavo, piccola e verde, piastrellata fin quasi al soffitto. Forse hanno cambiato le panchine, quasi sicuramente, ma la tinta al soffitto non l’hanno data. Negli angoli c’è il segno degli anni e dell’abbandono. L’orologio è fermo ad un’ora congelata in un giorno ormai passato; la lancetta dei secondi fa avanti e indietro, con un ritmo tutto suo, va e torna sullo stesso secondo da chissà quanto tempo. Trovo delle monete sul fondo del borsone e compro un pacchetto di sigarette al distributore automatico vicino alla biglietteria, poi esco per strada e mi fermo sul ciglio del marciapiede. Non troppo lontano, forse in qualche parcheggio male illuminato, un antifurto riempie la notte del suo lamento incalzante. Mentre penso a cosa fare, ascolto i suoni della città e guardo il fumo della sigaretta disperdersi nella corrente. Dovrei prendere a destra, è la strada più veloce, ma non lo farò. Non ne ho voglia. Torno a casa dopo tanti anni e desidero fare le cose con calma, senza fretta. Sento di dover celebrare il momento e ci sono due posti in cui devo passare. Un dovere morale.
Mi incammino, con il borsone a tracolla, lungo il muro di cinta della ferrovia. Mi muovo sicuro, senza esitazioni, il disegno del quartiere, se mai ne avevo dubitato, non ha segreti per me, mi ricordo tutto, non ho dimenticato. È come un tatuaggio, indelebile sulla pelle e nelle vene, una mappa scolpita nel profondo, per sempre. Cammino e riconosco le piccole cose che il tempo non ha intaccato: la crepa nel pilastro del ponte, l’albero vicino alla palestra della scuola, l’insegna lampeggiante della videoteca, il cancello arrugginito dei campi di calcio. Scivolo nello stretto vicolo buio tra la lavanderia a gettoni e il negozio di vernici: so dove sto andando, cosa c’è al fondo, dove le luci sono basse e taglienti.
Sotto l'Angelo non c’è nessuno, solo la sua ombra, che si allunga lenta verso la notte, ondeggiando e danzando, portata dal vento. Nessuno sa come quella statua sia finita al centro di un piccolo parco di periferia, costretta fra palazzi e garage, marciapiedi e serrande. Impossibile sapere la verità, ogni storia sull’Angelo assume subito i contorni della leggenda metropolitana, troppo affascinante per essere credibile. Il corpo sinuoso e perfetto, proteso in avanti. Le braccia aderenti ai fianchi, piegate verso l'alto, all'altezza dei gomiti. Una mano, quella destra, con il palmo rivolto in su; la sinistra, lasciata cadere, sbarazzina, verso il basso. Un morbido vestito lungo, a coprire le forme provocanti, fatta eccezione per le spalle ed i piccoli piedi. Il volto leggermente chinato verso terra ed i lunghi capelli raccolti sulla nuca. Gli occhi appena socchiusi. Sulla schiena due ali spiegate, solenni e armoniose, pronte a portare l'Angelo in alto, lontano.
Mi arrampico sul piedistallo e sfioro la sua mano sinistra. Quella dama di marmo, ormai ingrigito dagli anni, mi accompagna da sempre, da quando, ancora bambino, quel parco è diventato la mia seconda casa. Alzo lo sguardo verso l’alto e per una attimo mi perdo nel cielo della mia città, solo un ritaglio tra cornicioni e grondaie, una porzione dell’insieme, una prospettiva periferica. La forza del vento si accanisce sull’angolo scollato di un manifesto pubblicitario e piega i pannelli della fermata dell’autobus, mentre costeggio i muri scrostati di una fabbrica dismessa che ho temuto di non trovare più. Per quanto mi sforzi di tornare indietro con la memoria, non riesco a ricordare quello stabilimento in attività. Gli anni trascorsi hanno contribuito a renderlo ancora più triste e spettrale, con la vecchia ciminiera e i tetti spioventi, sfiniti e trascurati, che sembrano sul punto di crollare.
Il buco nella recinzione è ancora aperto e riesco a entrare, spingendo a forza il borsone sotto lo sguardo curioso dei ragazzi che stanno fumando una canna, seduti sul bordo del marciapiede, al lato opposto della strada. Dentro la fabbrica è buio e sporco, costeggio il perimetro esterno e raggiungo quello che sto cercando. Lo chiamiamo “il Muro”, è un universo nascosto, l’epicentro del nostro mondo, un tempio, il mio posto speciale. Sulla parete esterna di un vecchio edificio, generazioni di ragazzi hanno lasciato il loro segno, i loro pensieri, parole giovani, ingenue, verità presuntuose, messaggi d’amore e di disprezzo, volgarità e tenerezze, in totale libertà e spontanea anarchia. I fratelli maggiori hanno mostrato “il Muro” ai più piccoli, gli amici ai nuovi arrivati, le ragazze ai fidanzati conosciuti a scuola…come si svela un segreto, come un’affiliazione, come l’ingresso in uno spazio privato, riservato a pochi.
“Io e il mondo: il resto è relativo by MF”…quasi sull’angolo, in basso a destra, con pennarello nero.Quanti anni sono passati da quella scritta? Quanto lontane sembrano le parole, i pensieri, i sogni? Faccio fatica a riconoscermi, è cambiata anche la calligrafia, è cambiato tutto.
Mi riprometto di tornare appena possibile e riprendo la strada verso casa. Il condominio che mi ha visto nascere e mi ha cresciuto aspetta paziente al fondo della via. Dodici piani di vite normali, di storie urbane, di lavori modesti, di successi e disavventure. Centinaia di appartamenti, di televisioni accese e di libri sul comodino, di malinconie e di speranze.
Vedo la luce della cucina accendersi appena svolto l’angolo. Mia madre mi aspetta alla finestra, in punta di piedi e appoggiata al davanzale, come quando ero ragazzino e tornavo tardi. Probabilmente mio padre sta leggendo il giornale in salotto, fingendo calma e celando l’ansia tra le pagine sportive. Per la prima volta da quando sono sceso dal treno sento sciogliersi il nodo che ho in gola e un sapore amaro spandersi in bocca, il gusto salato di lacrime che non piangerò, non questa sera.