giovedì 22 aprile 2010

Non si muove una foglia


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Cari lettori,
oggi il nostro viaggio ci porta alla scoperta di un misterioso fenomeno storico e sociale che ha incuriosito e affascinato la comunità scientifica internazionale e l’opinione pubblica: il gioco denominato “Non si muove una foglia”.
Sono molti gli studiosi che, nel corso degli anni, hanno cercato di scoprire i segreti e descrivere le innumerevoli implicazioni culturali di un’usanza dai contorni indistinti e per alcuni versi, ancora, indecifrabile.
Le testimonianze dirette sono infatti scarse e poco attendibili: qualche decina di individui dalla pessima reputazione e dal passato riprovevole che asseriscono di conoscerne le regole e di averlo addirittura praticato. Oltre ai confusi racconti di questa sparuta e inattendibile comunità, però, non si sa praticamente nulla e per molti anni, di fatto, ogni riferimento a questo insolito gioco ha avuto i tratti confusi della leggenda metropolitana, una serie di supposizioni prive di qualsiasi valore scientifico.
Nel corso dell’ultimo decennio, tuttavia, alcuni gruppi di ricercatori hanno rielaborato i dati a disposizione e formulato una serie di teorie di un certo interesse, anche se per alcuni versi contrastanti. Gli studi compiuti giungono a conclusioni divergenti, ma partono dalla comune e comprovata certezza delle origini arcaiche e ancestrali del gioco: un rituale antichissimo, primigenio, che presenta caratteristiche simili alle cerimonie primitive. La partecipazione quasi esclusivamente maschile al rito, la componente violenta e aggressiva, lo stato di alterazione sensoriale indotta dall’utilizzo di sostanze allucinogene dei partecipanti, sono elementi che dimostrano, senza ombra di dubbio, le origini preistoriche del fenomeno.
Se la genesi del “Non si muove una foglia” si perde in un passato molto lontano, le testimonianze più recenti, sopra citate, si attestano verso la fine del XX secolo, nell’area nord occidentale della penisola italica e in particolare nella periferia del principale insediamento urbano della zona.
Prima di procedere alla descrizione del gioco occorre contestualizzare lo scenario in cui, nella maggior parte dei casi, veniva praticato: si tratta di luoghi isolati, male illuminati e occupati da queste specie di tribù urbane soprattutto nelle ore pomeridiane e notturne.
Ora, immaginiamo come doveva apparire agli occhi di un osservatore del tempo questo affascinante rituale.
Una luce artificiale illumina, debole, uno spiazzo tra le abitazioni. Sulle mura scritte scolorite e disegni tribali. Suoni rabbiosi e ritmi incalzanti riempiono l’aria, incitano gli animi, alimentano il phatos del momento. I partecipanti al gioco sono carichi, l’adrenalina è palpabile. Il clima è concitato ma allegro, risate, sorrisi, tutti sembrano divertirsi. Nasce uno scambio di parole, un conciliabolo, una sorta di discussione fatta di battute, di provocazioni, sempre sull’onda dello scherzo e dell’allegria. Poi, d’un tratto uno di loro si allontana dal gruppo. Finalmente si è trovato il volontario, il prescelto, colui che darà inizio al rituale. Lentamente gli altri partecipanti si schierano su due file, disposte una in fronte all’altra, a neanche un metro di distanza, a formare una sorta di stretto passaggio obbligato. Fianco a fianco, gomito a gomito, prendono posto, si preparano.
Quando tutti sono pronti il prescelto si avvicina all’ingresso del passaggio, sul limitare del varco tra le due fila di persone. Le braccia dei partecipanti si alzano, i palmi delle mani sono aperti, all’altezza del capo. Una selva di arti pronti allo scatto, famelici.
Il prescelto si appresta a partire, temporeggia, aspetta il momento giusto, poi prende coraggio e, con un gesto rapido, mette un piede all’interno del passaggio al grido di “Non si muove una foglia”. Tutti, tranne lui, si bloccano, restano immobili, come congelati a osservarlo, mentre procede tra le file. Quando ha compiuto un passo intero e, ormai, è completamente entrato nel varco, di colpo, parte uno schiaffo. Una mano lo colpisce, violentemente, sulla nuca, per poi fermarsi nel punto in cui lo ha colpito. Lui si gira rapido e, nello stesso, istante un altro lo colpisce da dietro. E poi un altro. Il prescelto barcolla, incassa i colpi, ma prosegue. Muove la testa velocemente, a scatti, osserva. Ogni tanto si avvicina ai volti dei partecipanti, dice qualcosa, fa delle smorfie. Gli altri restano fermi. Ridono, sogghignano, borbottano anche qualcosa, ma con la bocca chiusa, serrata. Partono altri schiaffi, un pugno sulla schiena e il prescelto continua ad avanzare. Poi, da destra parte un colpo che lo colpisce sul collo, ma lui si gira nello stesso istante e lo vede arrivare. Grida, indica chi lo ha colpito, si ferma, torna indietro. Le fila si sciolgono, tutti dicono qualcosa, c’è agitazione, fino a quando la persona che il prescelto ha indicato si allontana dal gruppo, come il suo predecessore. Le fila si ricompongono a formare il passaggio, le braccia scattano verso l’alto e il nuovo prescelto si avvicina al varco, pronto a gridare “Non si muove una foglia” e cominciare la sua perigliosa traversata.
Una cosa è certa: doveva trattarsi di uno strano spettacolo, curioso e per molti aspetti incomprensibile.
Un vero rituale per pochi adepti.
Tuttavia, grazie ai recenti studi siamo in grado di colmare qualche lacuna in merito alle regole. Sembra che il gioco consista nel colpire la persona che passa attraverso il passaggio senza essere colti in movimento (da qui l’arcano nome). Altra cosa da non fare è mostrare i denti. Nel caso in cui chi attraversa veda qualcuno muoversi o con la bocca aperta sarà sostituito da quest’ultimo. Sembra anche che, ma questo non è confermato da tutte le fonti, se al momento dell’ingresso non si pronuncia la frase “Non si muove una foglia”, colui che si dimentica sia passabile di un’antica e violenta pratica di tortura, denominata caricone.
La nostra reale conoscenza del fenomeno si ferma qui, tutto il resto è leggenda.
A questo punto, potremmo dibattere a lungo sulla moralità e sulle ricadute sociali di una simile pratica, ma non sono giudizi che spettano a noi, imparziali viaggiatori nel tempo.
Non ci resta che riprendere il nostro viaggio, alla scoperta dei grandi misteri della storia.

giovedì 1 aprile 2010

Batman


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Non ho mai saputo il suo vero nome, quanti anni avesse o dove fosse nato, per me e i miei amici è stato sempre e solo Batman. Oscuro, enigmatico, misterioso, Batman si è affacciato sulle nostre vite per il breve volgere di una stagione, avvolto da un silenzio fitto di incognite, lasciandoci il ricordo speciale di qualcuno che ha vissuto la vita in un cono d’ombra, sulla linea di frontiera.
Lo incontrammo per la prima volta in un tardo pomeriggio di sole. Erano i giorni in cui la primavera scivola nell’estate, quando l’aria porta profumi inebrianti e la notte sembra non arrivare mai. In quel periodo avevamo colonizzato un giardino all’interno del parco del manicomio a Collegno. Due panchine, sotto un albero, tra le mura della Certosa, dove l’antico complesso resisteva allo scorrere del tempo, bloccato, congelato, come in un fermo immagine. Era il nostro angolo di mondo riservato, il posto in cui rifugiarci ad aspettare il tramonto e poi la sera.
Persi nel nostro confuso delirio tardoadolescenziale non ci accorgemmo neanche del suo arrivo. Prima non c’era e poi, d’un tratto, era tra noi, ritto in piedi tra le due panchine, con la testa china e un sorriso sfuggente sulle labbra. Aveva i capelli neri, immobili e scapigliati allo stesso tempo, la barba di qualche giorno e negli occhi il riflesso della follia, profondo e indelebile, tagliente come l’aria gelida dell’inverno.
Siamo nati a cresciuti vicino al manicomio, negli anni appena successivi alla sua chiusura e alla sua conseguente apertura verso l’esterno. Abbiamo un rapporto particolare con i matti, di consuetudine, di familiarità, di convivenza quotidiana, eppure in quel momento ci trovammo spiazzati e stupiti. C’era qualcosa, in lui, di inquietante e curioso, che lo rendeva speciale, diverso da tutti gli altri malati che ci capitava di incontrare.
Indossava un paio di jeans malconci, scarpe da ginnastica consumate e una maglietta nera con il simbolo di Batman. Restammo in silenzio per un momento, in lontananza il suono di un antifurto e il latrato ossessivo di un cane, a guardarlo sedersi tra noi, sul bordo sinistro di una panchina. Non disse una parola, poi dopo qualche secondo, con un gesto inequivocabile della mano ci chiese da accendere. Fumava ignote sigarette senza filtro e le fumava fino alla fine, tenendole con la mano destra. La pelle tra le dita era completamente bruciata, ustionata, carbonizzata dal tabacco rovente che ardeva e si spegneva lentamente. Una crosta marrone e nera, spessa e rugosa gli ricopriva parte della mano, negli spazi tra le prime dita. Non so come avesse fatto a sopportare il dolore, prima di perdere completamente la sensibilità, ma ormai sembrava non accorgersene. Rimase con noi per il tempo di quattro sigarette. Il nostro imbarazzo iniziale svanì con l’incedere dell’imbrunire e presto tornammo a parlare, scherzare, ridere. Poi, così come era venuto se ne andò, in silenzio.
Passarono diverse settimane, arrivò l’estate e Batman, a partire da quel pomeriggio, venne a trovarci quasi ogni giorno. Si sistemava comodamente sulla panchina, accavallava le gambe, fumava qualche sigaretta e ci stava ad ascoltare, senza mai aprire bocca, con il suo indefinibile sorriso stampato in viso. A volte era più vispo, altre un po’ rallentato. Credo dipendesse dalle medicine.
Ogni tanto cercavamo di coinvolgerlo, scherzavamo con lui, una battuta, una domanda, ma lui non rispondeva mai, si limitava a qualche impercettibile cambiamento di espressione, niente di più. Fino a quando, un giorno, all'improvviso, parlò.
Aveva una voce rauca e graffiata, di catrame e nicotina, sporcata dal tempo e dalla vita.
“Mia sorella”, esordì, guardando a terra, “mia sorella è una stronza”.
Poi prese coraggio e raccontò. Una storia di cattiveria e dolore, di una coppia di fratelli rimasta orfana, di un fratello minore debole e problematico, di una sorella maggiore meschina e opportunista che si libera del problema e lo fa ricoverare in un ospedale psichiatrico. Le medicine, la solitudine, le terapie, la desolazione, la paura, una spirale terribile, una caduta libera.
Non era lucido, ma era sincero. Il suo racconto era confuso, passato e presente si sovrapponevano, le nostre domande lo agitavano, ma la verità si leggeva negli occhi, nelle mani che tremavano e nel modo in cui, come se stesse scappando da qualcuno, d'un tratto, si allontanò veloce tra le mura del manicomio.
Non lo rivedemmo più e presto anche l’estate finì.
Con l’inizio della scuola e le prime brezze autunnali abbandonammo le panchine della Certosa e tornammo alle abitudini di sempre, ma il ricordo di Batman lo portiamo ancora con noi.
Quel giorno, il giorno in cui parlò, capimmo quanto sottile e sfumato sia il confine tra pazzia e disperazione, quanto dura, logorante e cattiva possa essere la vita.
Mi piace pensare che, anche solo per qualche ora, seduto in mezzo a noi, sia stato bene, si sia sentito parte di qualcosa, di un gruppo. Perché alla fine della storia c’è una cosa di cui anche i grandi eroi, anche i cavalieri oscuri, non possono fare a meno: gli amici.