martedì 21 settembre 2010

Ciao casa, addio

Tardo pomeriggio d’estate, 18:45 circa, quartiere di periferia, temperatura 23 gradi, nuvoloso.
L’eco dei passi rimbalza tra le mura delle stanze. Serrande abbassate, finestre chiuse. Per terra qualche scatola di cartone rimasta vuota e nastro da pacchi. Una forbice. Pennarelli. Faccio entrare luce e aria che lentamente si mischiano alla polvere e all’odore di chiuso. Sulle pareti il contorno scuro di quadri che non ci sono più e chiodi abbandonati. Dal soffitto pendono fili elettrici, nessuna lampadina. Gli interruttori sono scoperti, scollegati. Nel silenzio attutito si ritagliano uno spazio sfuggente le grida dei bambini in strada e il rombo esausto del pullman che riparte dopo la fermata. Le porte degli armadi a muro sono aperte, all’interno i ripiani appaiono vuoti ma ancora foderati. Alla presa del telefono è attaccato un cavo che si arrotola senza fine sul pavimento. Chissà se qualcuno chiama ancora?
In un angolo l’intonaco si è staccato. Tutto è spoglio, svestito. Anche le finestre, senza tende, sembrano nude e smarrite.
Siedo per terra, la schiena appoggiata alla parete contro la quale stava il mio letto. Sento alle spalle l’ascensore mettersi in moto e partire verso il basso. Qualcuno deve averlo chiamato dal piano terra. Cinque piani in venticinque secondi. Penso a quante volte li ho contati, aspettando che le porte scorrevoli mi liberassero nel mondo.
Mi perdo a fissare, a sinistra, il segno lasciato dal poster dei Pearl Jam. Forse è uguale a tutti gli altri ma a me sembra più intenso, più reale.
Sono seduto qui, sul pavimento della casa in cui sono cresciuto, per un ultimo saluto. Per un commiato. Un sapore amaro in bocca, salato come l’acqua del mare, lo sento al fondo della lingua, quando deglutisco. Lo sento scendere dagli occhi, lentamente.
Da domani qualche muro cadrà, nuovi colori, nuovi pavimenti, nuovi arredi. Inquilini nuovi.
Da domani questa non sarà più casa. Non per me. Non più.
In un film questa scena sarebbe virata in un bianco e nero lievemente seppiato, rallentata, quasi fuori fuoco. Io cammino nella mia vecchia casa, le mani in tasca, gli occhi pensierosi, mentre al mio passaggio le stanze vuote si riempiono di mobili e di ricordi. Effetti speciali. Reminiscenza. Flashback.
Invece resto seduto al mio posto, le gambe raccolte, a fissare il segno del poster sul muro. Non riesco a ricordare niente, cerco disperatamente frammenti di passato, ma vedo solo la vastità del nulla intorno a me. Ho il blocco della memoria. Le strade di accesso sono temporaneamente chiuse al traffico. Impossibile procedere oltre.
E allora lascio perdere. I ricordi torneranno da soli, riaffioreranno inaspettati per prendermi di sorpresa. Avranno il sapore intenso delle stagioni passate, la superficie liscia, levigata dallo scorrere del tempo.
Mi rilasso. Chiudo gli occhi, appoggio la testa al muro e penso. Penso a quante sfumature abbia la parola casa, a quanto mutevole nella forma possa essere, in fondo, lo stesso significato. Mattoni, cemento, legno, vetro. Tutto questo è casa, sicuramente. Una tana, un angolo di mondo riparato e solo tuo, in cui crescere, nascondersi, essere te stesso. Ma casa è anche molto altro. Molto di più, almeno per me. Passato e presente. Ricordi, sensazioni, immagini. Non servono mura, a volte, per sentirsi a casa.
Lo sguardo di sole e melodia con cui mia moglie mi rimette al mondo ogni giorno. Il contatto vellutato con le sue mani.
L’andatura scomposta degli amici che tornano a casa a fine serata. Il loro abbraccio schietto, sospeso da ogni giudizio.
Il timbro profondo della voce nella mia canzone preferita.
L’aroma dolce della crostatina al cioccolato e la morbidezza oleosa della focaccia della panetteria.
Il vociare sempre più indistinto, confuso e lontano che arriva dalle altre stanze mentre ti stai addormentando.
La corsa felice di un cane quando ti vede arrivare.
Il motivetto musicale, semplice e struggente, di una vecchia pubblicità natalizia.
Il mio segnalibro preferito, un cartolina con il ponte di Brooklyn. Il modo esperto in cui si infila tra pagine piene di parole scritte bene.
L’odore arrogante, di benzina, dello Zippo. Lo scatto metallico quando si chiude.
La penna che scivola decisa sul taccuino. L’ispirazione.
La malinconia dei giorni di pioggia, il profumo dell’asfalto bagnato dopo un temporale.
Il calore avvolgente del bourbon quando scende in gola. Birra e patatine.
Gli alberi del parco, quelli con i rami che ti seguono, ti osservano, ti proteggono.
Tutte le cose di cui sono sicuro. La certezza che i dubbi non finiranno mai.
La strana fragilità della notte prima di un viaggio.
Il continuo, profondo, lancinante richiamo della strada.
Il respiro di Sofia, leggero, nuovo, al sapore di latte. Ogni suo pensiero, ogni piccola cosa, di lei.
Penso a questo, sul pavimento di quella che era la mia camera. Penso a mia figlia appena nata, alla pace che raggiunge quando sta sdraiata sul petto di sua mamma, dove può sentire il cuore battere. Quella è la sua casa.
Mi alzo, stropiccio gli occhi, mi stiro le gambe. Respiro bene.
Dedico un ultimo sguardo alle mura che mi circondano.
Saluto. Sorrido. Ciao casa, addio.

Le ultime della notte

Scrivo delle ultime ore della notte, zona di confine, terra di frontiera e redenzione. Ore sottili, di dissolvenza, di chiaroscuri soffusi che si stemperano nelle luci dell’alba e svaniscono tra i primi bagliori del mattino. Scrivo di quelle ore sospese e della pioggia che si è posata sulle strade della città, leggera e brillante, un velo lucido di promesse di rinascita e purezza, di nuovi orizzonti.
Strade asfaltate di riflessi tinteggiati e tremolanti nella notte, pozzanghere come specchi verso il cielo, tutto è bagnato, scivoloso, sfuggente.
Un semaforo lampeggia nervoso la luce più gialla che riesce a colorare, ritma l’intermittenza a tempo con il battito della città, cerca il suo riverbero sulla superficie della strada. Nessuno si preoccupa del suo pulsare, poche auto solitarie sfilano indifferenti attraverso incroci assopiti e distratti, oltre placidi svincoli sonnolenti, verso cosa non si sa, nessuno lo vuole veramente sapere.
Un cane vagabondo annusa il buio e guarda rapito e smanioso ai pacchi di giornali appoggiati ai lampioni. Notizie intrappolate, soffocate, bisognose di ossigeno e di avidi lettori mattutini. Un pacco era aperto, la pioggia ha fatto colare l’inchiostro sul marciapiede e disperso l’informazione in forma liquida sull’asfalto, tra le impronte distratte dei passanti di ieri e di domani.
Serrande abbassate, lucchetti, antifurti. La città chiude per la notte, si nasconde, si protegge da se stessa. Poco più avanti una luce esce timida dal vetro appannato di una finestra. Rumori di lavoro, di strumenti e di impegno. Profumo di pane, di forno e di cose buone. Il cane vagabondo si avvicina alla finestra con occhi famelici e sognanti e si accuccia sotto il cono di luce fragrante.
Sopra la testa il cielo è scuro, nero profondo. Lontano, oltre il profilo irregolare delle montagne, oltre il loro disegno nitido e seducente, il buio stempera lento e sereno verso un blu accarezzato dal sole crescente.
Si respira aria intrisa di un’armonia appena sussurrata. Sembra di sentire la musica del passaggio, il suono delicato della notte che sfuma lentamente nel giorno. Anche gli uccelli cantano melodie più ispirate, improvvisano frasi ardite, surreali, oniriche. Forse si sono appena svegliati e ripensano ai sogni della nottata.
Dormiranno mai gli uccelli di città? E cosa sogneranno?
Di colpo si alza un vento teso, insolente e profumato. Arriva da occidente, va incontro al sole. Sgombrerà il cielo dalle nuvole e dai dubbi, farà chiarezza e regalerà certezze.
Le fronde degli alberi si abbandonano in una danza senza tempo, rapite nell’estasi del movimento. C’è qualcosa di profondo, nel loro oscillare sinuoso e tribale, qualcosa di spirituale, di divino.
Una folata spalanca una finestra, nel vecchio palazzo di pietra e storia, una tenda bianca come la luna svolazza nella notte. Si intravede qualcosa, oltre il drappeggio gonfiato dal vento. Ci sono fotografie sparse sul tavolo, istantanee che portano sui bordi i segni inesorabili del tempo, scatti di vita ingiallita e velata dal ricordo. Qualcuno ha fatto un viaggio nel passato, lungo le strade della memoria, alla ricerca di qualcosa di perduto.
Pochi piani più in basso, la testina di un giradischi accarezza l’ultimo solco di un vecchio vinile e si perde nella scia delle ultime note che ancora aleggiano tra le pareti della camera. Lenzuola stroppicciate, candele, bottiglie di vino. Odore di destini intrecciati, di corpi destinati ad intrecciarsi. Qualcuno si è amato, questa notte.
All’ultimo piano, la dolce nenia di un carillon culla il sonno di una bimba appena nata. Dormi bene, piccola, fai sogni d’oro.
Sull’altro lato della strada, qualcuno fuma una sigaretta, a testa bassa, appoggiato al davanzale di una finestra aperta sulla città. Assapora la magia del momento, il sapore inebriante di queste ore, le ultime della notte.
Poi getta la cicca al vento e alza lo sguardo, nel primo sole di un nuovo giorno.