mercoledì 1 agosto 2012

Treni


Me lo aspettavo, lo temevo, era nell’aria da tempo. Eppure, in fondo, non ero davvero preparato. Sarà stato per quella bella giornata di sole o perché la vita non mi aveva ancora abituato ad attendermi il peggio, ma ero uscito di casa con una grande carica di ottimismo, riponevo grandi speranze nel futuro. Come piano B, in ogni caso, speravo di cavarmela, ancora una volta.
Invece, nonostante tutti i miei sforzi di trovare segnali positivi ovunque, dalle forme delle nuvole alla frequenza dei semafori verdi, malgrado le preghiere rivolte ad ogni divinità dell’Olimpo e dell’Empireo, il dramma tanto paventato, infine, si consumò.
Capii che ero stato bocciato ancora prima che si aprissero le porte del pullman. Percorsi il tratto di cortile tra la fermata e la parete su cui erano appesi i risultati sotto lo sguardo di decine di ragazzi, una sorta di passerella della compassione e del sollievo. Come un cowboy solitario che attraversa il paese, verso il suo destino, mentre gli abitanti lo osservano dalle finestre, dalle verande, i bambini dai tetti, gli ubriachi dalla porta del saloon, io tagliai in due il cortile della scuola, a testa bassa. Ovunque, intorno a me, occhi che parlavano chiaro, inesorabili. Labbra contratte. Mascelle serrate. Maschere di contrizione. Erano tutti tristi, molto tristi, per me.
Ma per favore! Falsi. Giuda. A parte gli amici, quelli che lo sono ancora oggi, erano tutti dei maledetti traditori. Per un anno complici e per cinque minuti amareggiati. Loro parlavano e io vedevo i sottotitoli. “Mi dispiace”, dicevano. Io leggevo: “Cazzi tuoi Matte”. “Sono stati davvero stronzi”, sentenziavano. “Meglio a te che a me”, decifravo io.
Infami, è facile fare gli indignati con le disgrazie degli altri.
Decisi, come il cowboy, di andare fino in fondo, tuttavia, per guardare in faccia il destino, che nel mio caso erano i cartelloni con risultati.
Due materie con il quattro e due con il cinque. Non ammesso!
Ma cosa vuol dire “non ammesso”? Che razza di ipocrisia. Non ammesso alla classe successiva? E chi se ne fregava dell’anno successivo, era per quello appena finito che mi giudicavano. Non mi ricordavo che il professore di matematica mi minacciasse dicendo “Se continui così non ti ammetto alla classe terza”. “Ti boccio”, mi diceva.
Perché non scrivevano bocciato. Era quella la realtà. Bocciato.
Certo, per quanto importante, questa battaglia lessicale non era al centro dei miei pensieri mentre tornavo verso casa. C’erano problemi ben più tangibili che gravavano sul mio futuro: mio padre e la sua reazione alla notizia. Bruciavo a fuoco lento. E nel mondo pre-telefonia mobile le attese potevano davvero essere logoranti e micidiali.
Inutile dire che non la prese bene. Per quanto anche lui non si aspettasse grandi risultati, non diede la sensazione di essersi preparato a gestire con calma la situazione. O forse decise deliberatamente di incazzarsi come un pazzo. Come saperlo?
In ogni caso, quelli immediatamente successivi, furono giorni di inferno, scanditi dall’attesa di sapere quale sarebbe stato il mio destino. Mio padre era silenzioso, tramava qualcosa. Sapeva che poteva impedirmi di uscire, per punizione, ma sapeva anche che invece che stare a fare un cazzo ai giardini, avrei fatto un cazzo a casa. L’idea lo tormentava, così escogitò un piano. Doveva avermi sotto controllo e farmi capire, allo stesso tempo, come funziona il mondo, come funziona per le persone che si danno da fare, che non scappano di fronte alle responsabilità, che si guadagnano da vivere. Per questo una sera di giugno, seduti in cucina per la cena, mi comunicò la sua decisione: sarei andato a lavorare con lui, ogni giorno, per tutta l’estate, fino alle vacanze. Le sue, ovviamente. Le mie non erano contemplate.
Mio padre è ferroviere, anzi lo era. Adesso è in pensione, ma credo che per loro sia come per i militari, un’appartenenza eterna. Del tipo: ferroviere un giorno, ferroviere tutta la vita.
Ha cominciato molto giovane: era nel personale viaggiante in Val di Susa, che vuol dire da Torino a Modane, andata e ritorno, tutti i giorni e tutte le notti. Soprattutto le notti. Poi sono nato io e lui si è iscritto all’università. Studiava nel tempo libero e tra una stazione e l’altra.
Anni dopo, con la laurea in tasca, partecipò a un concorso interno e passò ad un lavoro d’ufficio, nella sede di Porta Nuova a Torino, proprio sopra l’atrio della stazione.
Sono sempre stato orgoglioso del lavoro di mio padre, così poetico e così semplice. Quando ero bambino mi piaceva rispondere alla domanda “che lavoro fa tuo papà”. Gonfiavo il petto e rispondevo rapido e determinato: il fer-ro-vie-re. Poesia e concretezza, storia e progresso. Tutto in una semplice parola.
Sempre ammesso che quando avrà l’età giusta per rispondere ad una domanda simile io abbia ancora uno straccio di occupazione, mia figlia ci metterà almeno venti minuti a spiegare come suo padre si guadagna da vivere. Il tempo complica le cose.
Così, ogni mattina mi svegliavo presto e partivo con lui. In quel periodo si occupava di gestire i magazzini delle stazioni piemontesi. Certi giorni eravamo in ufficio, a Torino, ma per la maggior parte del tempo viaggiavamo lungo le arterie della rete ferroviaria regionale. Il paesaggio scorreva veloce oltre il finestrino. Bruciato dal sole estivo. Caldo.
Poi lui spariva, in lunghe riunioni e sopralluoghi. Io restavo fuori, da solo. E mi perdevo. Camminavo lungo i binari morti, tra cataste di rotaie arrugginite e traverse ammucchiate. Saltavo su montagne di chiavarde, giunti di dilatazione, bulloni e piastre. Sedevo a fumare nei carri merci abbandonati. Mi arrampicavo sui tetti dei vagoni, lungo gli scambi. Mi sdraiavo a guardare il cielo.
Ho imparato molto in quelle lunghe giornate, i treni sono maestri, insegnanti silenziosi.
Ho imparato che i treni attraversano il mondo come occasioni sferraglianti, fendono l’aria di aspettative e speranze, seguono percorsi, tracciano cammini come le vite di ognuno di noi. Si incrociano, si perdono e poi si ritrovano.
Ho imparato che sono più quelli che partono, di quelli che arrivano. E che la maggior parte li guardiamo sfrecciare senza capire dove vadano e come fare a salirci.
Inutile dire che mio padre considerasse quei giorni come una punizione esemplare con la quale rimettermi in riga. E si potrebbe pensare che avesse ragione, perché obbligare un ragazzino a lunghe giornate solitarie a girovagare solitario nella desolazione delle stazioni di provincia sembrerebbe una dura imposizione.
Non per me, però. Perché quello che mio padre non sapeva era che se avevo buttato al vento un anno di scuola non era perché non passassi il tempo necessario seduto di fronte ai libri. Lo facevo, ma non erano i testi giusti. Nessun manuale di fisica o matematica. Nessuna antologia di classici latini. Leggevo Kerouac, Salinger, Hemingway, London. Ascoltavo Springsteen, tutto il giorno. Mi nutrivo di sogni di frontiera e viaggi lungo strade polverose.
Per questo non smetterò mai di ringraziare mio padre per quella punizione e ricordo con nostalgia la fatica con cui celavo il mio sorriso felice, mentre tornavamo a casa. Ne andava del mio castigo e della possibilità di avere un altro giorno a disposizione, un altro giorno per respirare avventura e per viaggiare sui treni della fantasia. 



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