mercoledì 22 febbraio 2012

Isora e Agostino

Quando suona la sveglia, nel silenzio di un’alba soffocata dalla nebbia, Isora è gia in piedi da un pezzo. Sono tanti anni che ormai si alza quando il mondo è ancora buio, ma la sveglia continua a suonare, alla stessa ora in cui l’aveva fissata Agostino. Affacciata alla finestra, attraverso le tende di pizzo che ha cucito con le sue mani, osserva il vasto campo piatto che si perde, nella vista, di fronte a lei. Isora è nata tra quelle mura, nell’antico casolare costruito da suo padre sul limitare del borgo di Molinella. Da 78 anni è casa sua. Ne ha viste tante di albe come questa, ha visto estati calde e soffocanti come solo l’inferno può essere e ha visto inverni così freddi che sembrava fosse ghiacciato anche il sole. Ha visto cambiare la città e il paesaggio tutto intorno, ha osservato il tempo cancellare tracce di un passato che era stato il suo presente. In albe come questa, però, con la nebbia mattutina che avvolge ogni cosa, Molinella sembra lo stesso paese di quando era bambina.
In camera da letto, sulla cassettiera c’è una sua foto di quando aveva otto anni e giocava nel cortile con un gatto spelacchiato. Sembra felice. Sul comodino, una foto di Agostino durante il servizio militare. Era così bello, in divisa, così fiero e sorridente. La foto del loro matrimonio, l’unica che ha conservato, ha il posto d’onore sul ripiano della credenza , in salotto. Non ci sono altre foto in casa. Non c’è mai stato nessun altro da ritrarre, nessun figlio, nessun parente, neanche lontano, nessun amico. E non mancano solo le foto. L’assenza è ovunque, si percepisce in ogni angolo della casa. Il vuoto è un inquilino, ormai. Ogni oggetto con un minimo di valore è stato venduto. Ricordi barattati per una manciata di denaro, per uno spiraglio di sopravvivenza. Non c’è più nulla tra quelle mura, solo aria viziata e un velo di tristezza che ricopre ogni superficie. Anche il più disperato e meticoloso dei ladri dovrebbe arrendersi all’evidenza e andarsene a mani vuote.
Sul letto ci sono tre pigiama stirati e piegati. Isora li ripone con cura in una busta di plastica, indossa la giacca, prende la borsa e si chiude alle spalle la porta di casa. Ci vogliono dieci minuti perché la macchina carburi, dopo averla accesa. Era già vecchia quando Agostino l’aveva comprata, di seconda mano, da un rivenditore alle porte di Bologna. Gli anni passati non sono stati clementi neanche con lei. Tutto invecchia. Tutto scivola inesorabilmente sulla linea del tempo. Anche le cose che possiedi invecchiano con te, Isora ha potuto vederlo con i suoi occhi.
La strada è sempre la stessa, nello svolgersi perpetuo del paesaggio all’esterno e nel ripetersi meccanico dei movimenti di guida. Rotonda, svolta a destra, semaforo, semaforo, rotonda, svolta a sinistra. La stessa strada, ogni giorno, da sette anni. La macchina sembra quasi in grado di procedere da sola, conosce il percorso. Isora si smarrisce nei suoi pensieri, li lascia scorrere, alcuni si perdono lungo la strada, altri, i peggiori,  restano chiusi nell’abitacolo, asfissianti. Una compagnia indesiderata, passeggeri clandestini. E ogni volta il parcheggio della clinica appare come un miraggio all’orizzonte, non come l’approdo, ma come la via di fuga. Spegnere il motore, aprire la portiera e lasciare uscire le presenze, i presagi, i pensieri, le paure. Liberarsene, almeno per un attimo, almeno per i pochi metri che separano il parcheggio dalla porta di ingresso.
Gerardo, il portiere, le rivolge un saluto sfuggente da dietro il bancone, mentre alza la cornetta del telefono. Isora procede lungo il corridoio, senza voltarsi, supera porte chiuse e aperte, fino alla numero 18.
La stanza è in penombra, la serranda è ancora chiusa e la debole luce che entra dall’esterno si amalgama con il neon del bagno, sempre acceso, sempre ronzante. Agostino è nel letto. Sembra che stia dormendo. Isora si muove in silenzio, nel silenzio. Ci è abituata. Osserva suo marito, nella stessa posizione in cui lo ha lasciato ieri. Gli occhi chiusi. La stessa posizione che sembra avere da anni. Lo guarda e non può evitare di tornare con la memoria al giorno in cui è stato male, alla corsa in ospedale, alla paura di non rivederlo più, al sollievo di abbracciarlo ancora anche se in quelle condizioni, alla consapevolezza che nulla sarebbe stato più come prima, al tentativo di riportarlo a casa, di occuparsi di lui, all’inevitabile resa di fronte all’evidenza, alla dolorosa decisione di portarlo in quella clinica, ai giorni che sono seguiti. Da quando Agostino è in quella stanza, da sette lunghi anni, Isora è andata da lui ogni giorno, due volte al giorno. Mattina e sera, estate e inverno, gioia e dolore, salute e malattia, tutti i giorni della sua vita.
Mentre ripone i pigiama puliti nell’armadio e con la mente vaga ancora nei ricordi, la porta della stanza si apre con una forza insolente, lasciando entrare il direttore della clinica e il suo piccolo contabile. Neanche un saluto, il direttore le parla sottovoce, ma dal livore negli occhi è come se gridasse. Dice che la situazione è ormai insostenibile, che sono insolventi da tre mesi e che il regolamento parla chiaro: o troverà il modo di saldare le pendenze o Agostino dovrà lasciare la struttura. Isora cerca di spiegare, pronuncia parole consumate, logore. Ripete, ancora una volta, che loro hanno solo una pensione, quella minima di Agostino, che le spese sono troppe, che non riesce a fare fronte a tutto, ha già venduto tutto quello che poteva, che aspettano risposte per l’assistenza sanitaria. Chiede di avere pazienza, comprensione, pietà. Il direttore è un muro, anzi uno specchio che rimanda indietro impietoso il riflesso della disperazione. Il piccolo contabile scuote la testa con finta comprensione. Una pessima messinscena. Escono dalla stanza ripetendo che non potranno accettare ulteriori ritardi. Nella penombra, resta solo il silenzio della realtà.
Agostino apre gli occhi, lei sussulta, trasalisce. Era sveglio, ha sentito tutto.
Lui le fa cenno di avvicinarsi, lei si siede sul letto, avvicina mestamente l’orecchio alle sue labbra. Nel silenzio Agostino parla, con un flebile filo di voce, lentamente, a lungo. Quando finisce, Isora chiude gli occhi, resta immobile, le parole appena sentite risuonano come eco, per un un momento che sembra durare un’eternità. Una lacrima le scivola lungo il viso, poi si alza, decisa, determinata. La bocca di Agostino si apre in una smorfia che sembra un amaro sorriso.
Isora scosta le coperte, aiuta Agostino a vestirsi, a fatica lo fa sedere sulla sedia a rotelle, escono in corridoio, passano davanti all’indifferenza servile di Gerardo, superano la porta a vetri, attraversano il parcheggio, salgono sull’auto. Agostino la osserva con malinconia.
Per la prima volta dopo un tempo che non riescono a ricordare Isora e Agostino sono di nuovo in macchina insieme.
Ora viaggiano, seguono la strada in silenzio. Svoltano a sinistra e prendono verso la campagna. L’asfalto taglia i campi come una ferita.
Al fondo della strada il ponte sul canale, in cima alla salita. Isora accelera, sempre più a fondo. Il motore va su di giri. L’auto corre, veloce. Il ponte è a pochi metri. Agostino le prende la mano. Lei la stringe, poi lascia il volante. Le ruote scartano a destra.
Isora e Agostino chiudono gli occhi, mentre la macchina sfonda una fila di alberi e precipita, oltre, nel sordo rumore di un sogno che si infrange, della sconfitta più grande, della scelta più difficile, dell’addio.

Luciano è appoggiato al parapetto del ponte. Pesca, come tutte le mattine. Da pochi mesi è finalmente andato in pensione e può fare quello che ama e aspetta da tempo, nel silenzio e nella pace dei canali di campagna.
Luciano sente il rumore del motore, lo sente avvicinarsi da lontano. Si volta e vede la persona al volante alzare le mani e sterzare bruscamente verso destra. L’auto sparisce per qualche istante alla sua vista, poi la vede spezzare la vegetazione sulla sponda e volare in avanti, come in un’irreale scena da telefilm americano. In quel punto la scarpata è ripida e profonda, ma la macchina finisce contro i folti rami di un grande albero, che ne blocca e attutisce il peso e lo slancio, piegandosi e rompendosi in diversi punti. L’auto si gira su un fianco e poi cade ribaltandosi in mezzo al letto del fiume.
L’acqua è bassa, ma scorre rapida. Dalla macchina esce un denso fumo nero.
Luciano è pietrificato, incredulo, spaventato. Ma agisce. Getta a terra la canna da pesca e cerca il telefono. Chiama subito i soccorsi. Nella concitazione del momento dice alla voce che lo sta ascoltando e registrando che una macchina si è gettata nel fiume.
Non bada alle sfumature delle parole, al loro peso. Luciano dice quello che ha visto. E spera. Spera che se qualcuno in quell’auto è ancora vivo, forse, possa essere salvato.

Sono vivi. L’urlo del pompiere lacera il silenzio vibrante d’attesa. Seguono le grida concitate degli altri soccorritori, mentre procedono con le operazioni di salvataggio. Con delle funi mettono in sicurezza l’auto, poi estraggono Agostino e Isora, adagiandoli sulle barelle. Dall’alto del ponte Luciano osserva la scena. Le macchine della polizia e dei vigili hanno bloccato la strada su entrambi i lati. Solo lui è potuto restare all’interno del perimetro delimitato. Due ambulanze aspettano, motori accesi. Una decina di curiosi osservano dai cordoni del posto di blocco, cercando di gettare lo sguardo verso il fiume. Un fotografo della stampa locale, accorso sul luogo dell’incidente, si è spinto fino al limitare degli alberi sulla sponda e si affaccia pericolosamente per fare qualche scatto.
L’acqua continua a scorrere, lunghe nuvole affusolate percorrono il cielo.
I pompieri agganciano le barelle a dei cavi e le sollevano fino al ponte. Tutti restano con il fiato sospeso. I minuti scorrono densi.
Quando raggiungono la cima del ponte e vengono spostati su altre barelle, Isora e Agostino incrociano lo sguardo. Occhi vecchi, stanchi, rassegnati, che piangono.
Gli infermieri chiudono i portelloni, gli autisti sgommano, le ambulanze se ne vanno, a sirene spiegate.
Un applauso parte spontaneo, rimbomba fragoroso e potente. Tutti sono felici, tutti sono sollevati, tutti battono le mani orgogliosi. Due vite sono state salvate.
Il destino è dalla loro parte. Così sembra, almeno.

Agostino muore un mese dopo, per una letale catena di complicazioni dovute alla sua malattia, indipendenti dall’incidente.
Una settimana dopo la caduta nel fiume, ancora in ospedale per le ferite riportate, Isora viene interrogata dalla polizia. Nei giorni successivi le comunicano l’apertura di un’indagine e di un procedimento giudiziario nei suoi confronti. L’accusa è “tentato omicidio di consenziente”. Isora aspetta il processo in silenzio. Lo stesso silenzio in cui sprofonda inesorabile quando Agostino si spegne e la lascia per sempre. Il giorno del funerale di suo marito, Isora è sola. Nessuna cerimonia, nessun corteo funebre, nessuna condoglianza. Un addio privato. Triste. Doloroso. Definitivo.
Due settimane dopo la morte di Agostino, Isora è chiamata a processo.
Avvocati, giudici, testimoni. Tutti parlano di una vita, la sua, che non le appartiene più.
L’unica voce che si dovrebbe ascoltare è quella di Agostino, ma lui non può più parlare. E Isora non ha più niente da dire, non ha voce, non ha fiato.
Il consenso di Agostino non può più essere provato. I giudici si ritirano per deliberare.
La sentenza è proclamata: colpevole.
Isora è condannata a quattro anni e otto mesi, con le attenuanti prevalenti sulle aggravanti.
Arresti domiciliari. Libertà vigilata.

La sveglia suona, ogni giorno, alla stessa ora in cui l’aveva fissata Agostino.
Isora guarda, oltre la finestra, la nebbia mattutina e aspetta il giorno in cui non dovrà più farlo. Il giorno in cui non dovrà più alzarsi e scostare le tende della finestra. Il giorno in cui non dovrà più alzarsi.
Non fa altro, ormai.
Isora aspetta.
Agostino la aspetta.


***Liberamente ispirato ad una storia vera***

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