Una piccola chiesa medievale, arroccata sulla cima di una
collina. Dal sagrato si vedono le montagne e un’ansa del lago. Diluvia. La
cappella è stipata di invitati. Anche quelli che in una giornata di sole
sarebbero fuori a fumare con una scusa qualsiasi, si stringono in chiesa per
proteggere l’abito elegante. Si sposano due amici e ci siamo anche noi, in una
nicchia vicino al coro. Siamo in attesa, abbiamo un compito. Quando il prete
annuncia lo scambio degli anelli ci muoviamo, è il nostro momento. Porto mia
figlia all’inizio della navata centrale. Lei si avvia, a piccoli passi, con il cuscino
delle fedi tra le mani. Tutti gli occhi sono per lei, mentre consegna gli
anelli agli sposi. Si volta e torna indietro di corsa, verso di me. La prendo
in braccio e mi alzo in piedi, tra l’orgoglio per la mia piccola e l’imbarazzo
per l’attenzione generale. Mi volto, mi avvio e succede di nuovo. Sbatto una
terribile ginocchiata contro l’ultimo banco della chiesa. Resto in piedi per
miracolo e soffoco in gola un bestemmione che avrebbe annullato il matrimonio
per almeno vent’anni e portato all’immediata scomunica di tutti i cattolici
presenti. Non sento risate ma ci sono, arrivano come sparate con il
silenziatore. Infine, biascicando qualche parola intraducibile, sulle labbra un
sorriso altrettanto indecifrabile, torno al mio posto.
Questa è solo una scena, per la verità piuttosto divertente,
ma come questa, magari meno clamorose, ce ne sono infinite altre.
Questa è la mia normalità. Io sbatto. Sempre e da sempre.
Sbatto con i piedi, gli stinchi, le ginocchia, le anche, i gomiti e le spalle. Sbatto
di notte, al buio, nella consuetudine della mia casa. Sbatto in pieno giorno,
alla luce del sole, in luoghi sconosciuti. Sbatto contro sedie, gradini,
tavoli, stipiti e infissi, scrivanie, divani, portiere delle auto, oggetti
abbandonati e in movimento. Sbatto in ogni modo possibile. Io sbatto.
Non esistendo specialisti in questa strana patologia, negli
anni, ho cercato di darmi delle spiegazioni e credo che le cause siano
riconducibili a tre tipologie di problema: strutturale, satellitare ed
esistenziale.
Ho le gambe storte, da cowboy, i piedi lunghi e l’andatura
dondolante. Per quanto mi impegni a tenere sotto controllo i movimenti, questa
struttura fisica mi porta in dote un’inevitabile predisposizione ad uscire
dalle traiettorie. La conseguenza, ovviamente, è sbattere.
Bisogna poi tenere conto che, di solito, dove non arriva il
corpo dovrebbero subentrare i sensi, quelli innati, non tangibili, quelli
animali. In questo caso devo constatare di avere qualche serio problema di
posizionamento geografico e di mappatura ambientale. Insomma, qualcosa non
funziona a livello satellitare perché le stanze sembrano di colpo
rimpicciolirsi, gli angoli allungarsi, gli oggetti spostarsi, rispetto a quello
che il mio cervello registra al momento del movimento.
E anche in questo caso, l’ovvia conseguenza è sbattere.
A lungo ho riflettuto, guardandomi dentro e indietro,
scandagliando con meticolosa attenzione ogni centimetro del mio essere e sono
convinto di avere infine compreso una cosa importante. La mia propensione a
sbattere è esistenziale. Non si tratta solo di colpire un comodino con il
ginocchio o di urtare la spalla contro l’anta dell’armadio, ma della fatale
impossibilità di scansare quello che la vita dissemina lungo il suo percorso. Le
sorprese e gli errori, le sfortune, i regali, le delusioni e le speranze, i dolori, le
responsabilità, le delusioni e le opportunità. Gli incontri imprevisti, le
persone, quelle buone, generose, cattive, speciali, quelle che restano e quelle
che spariscono. Ogni curva, ogni salita, ogni incrocio. Contro ogni muro, ogni
maledetto spigolo, io ci sbatto.
Può sembrare semplice distrazione, forse, ma non lo è.
Questo è il mio modo di vivere e di essere. Io sbatto e mi sta bene così.
sbatto anch'io
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